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Uranio impoverito, dopo un anno di inchiesta la commissione sblocca gli indennizzi. PDF Stampa E-mail
«Anche se non è provato un nesso di causalità rispetto alla patologia, come osservato dall'Istituto superiore di Sanità, che non conferma tale ipotesi ma neppure la smentisce, i militari colpiti da malattie probabilmente collegate al loro lavoro potranno ora richiedere il risarcimento». Molte cautele nella scelta delle parole,

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ma in poco più di un anno di lavoro la commissione parlamentare d'inchiesta sulla torbida questione uranio impoverito ha prodotto un risultato importante: ieri - a Camere sciolte - ha approvato la sua relazione finale che offre una speranza a tente famiglie.
La commissione - la terza - era stata istituita a ottobre del 2006, in netto ritardo rispetto alla tabella di marcia del Governo, per fare luce sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato nelle missioni militari all'estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccate munizioni belliche. L'indagine avrebbe dovuto coinvolgere anche le popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale, con particolare attenzione agli effetti dell'utilizzo di proiettili all'uranio impoverito e della dispersione nell'ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico. Ma il tempo non è bastato.
È stato lavoro non privo di difficoltà ma alla fine ha consentito ai 21 senatori a trovarsi d'accordo (tranne tre astenuti) nel sostituire il nesso di causalità con il nesso di probabilità e ad equiparare le vittime del dovere alle vittime del terrorismo, almeno per quanto riguarda l'accesso ai fondi per il risarcimento. «Le conclusioni dell'inchiesta sull'uranio impoverito sono molto soddisfacenti», ha commentato Lidia Menapace, che presieduto i lavori. «La commissione pur nel breve tempo che ha avuto a disposizione, e nonostante la fine della legislatura, ha portato un contributo decisivo all'annosa questione. Fintanto che la scienza non avrà provato il rapporto certo e indiscutibile di causa ed effetto tra l'esposizione all'uranio impoverito e patologie, la commissione e anche il ministero della Difesa ammettono il rischio, la probabilità e la necessità di riconoscere perciò la causa di servizio a chi presenti danni in seguito a partecipazione a missioni militari».
Restano aperte ancora molte questioni, «ma le conclusioni della commissione - afferma la senatrice di Rifondazione comunista - che sono state rigorosamente di convinzione e non di schieramento, hanno certamente segnato un punto fermo nella materia, valido per chiunque possa essere in futuro ministro della Difesa».
Insomma è stata tracciata una via da seguire, anche per i futuri governi, anche se il cammino è ancora lungo. «Non dico che questo risultato sia il trionfo della razionalità ma certamente è un buon match a favore della ragionevolezza», dichiara la presidente della commissione, che non nasconde neppure le tensioni con il ministro Parisi: «All'inizio i nostri rapporti con la Difesa erano rigidi e in parte pregiudiziali e molto polemici, ma le cose sono cambiate».
Non mancano comunque le ombre, troppe ancora. Il documento appena approvato infatti dice che i dati statistici epidemiologici forniti dal ministero della Difesa sono altamente approssimativi, come confermato dallo stesso ministro Arturo Parisi, che - sentito in audizione - aveva fatto notare la necessità di una comparazione statistica dei dati. E fare luce su numeri e cause non è cosa facile, lo aveva già detto a Cagliari la stessa Menapace lo scorso dicembre, in occasione di una conferenza sulla malattie di guerra. Anche perché la commissione ha dovuto affrontare numerosi ostacoli durante il lavoro, a cominciare dall'esigua disponibilità di fondi, appena 100 mila euro, e dalle difficoltà riscontrate nel reperire i dati dai distretti e dagli ospedali militari: «In alcuni casi abbiamo dovuto mandare la polizia giudiziaria per ottenerli», aveva denunciato la senatrice.
Per questi motivi c'è un po' di amarezza nel commento del vicepresidente della commissione, Mauro Bulgarelli (Verdi): «La commissione è una bella macchina a cui però manca il motore, perché ci siamo dovuti fermare nel momento decisivo, quello delle verifiche e degli approfondimenti». Felice Casson (Partito democratico) ha detto che «il lavoro non è concluso e dovrà continuare nella prossima legislatura: è molto difficile e molto delicato e riguarda anche i poligoni militari italiani, ma i dati purtroppo non ci sono arrivati». Luigi Ramponi (Allenanza nazionale) - uno dei tre astenuti insieme a due senatori di Forza Italia - ha motivato la sua astensione dicendo che sono state inserite nel corpo della relazione proposte che hanno un po' sviato il senso generale, ma nel complesso giudica buone le conclusioni. Silvana Pisa (Sinistra democratica per il socialismo europeo) esprime la sua soddisfazione per gli emendamenti che raccomandano l'adozione di adeguate forme di prevenzione a favore del personale militare e civile operante nei teatri bellici all'estero.
Fondamentale secondo la presidente Menapace è che «la commissione ha chiuso sul passato e lascia al Parlamento un lavoro per il futuro, affinché vengano definiti tutti i protocolli. Ma intanto è già chiaro, fondamentale, che la prevenzione, precauzione e la cura sono assolutamente non rinviabili».
E la relazione finale arriva all'indomani dell'ennesimo caso di un militare sardo - un carabiniere sassarese stavolta - colpito da tumore. L'ha segnalato Falco Accame, presidente dell'Associazione nazionale vittime arruolate nelle forze armate e famiglie: «Nel giro di 10 giorni si è saputo di altro militare in Sardegna, sempre in provincia di Sassari, di tre casi nel Veneto e di un caso nel Friuli. Secondo il GOI, il Gruppo Operativo Interforze della Sanità militare, i casi conosciuti sarebbero 1.991». Per tutti ora - secondo il documento della commissione appena approvato - il diritto al risarcimento senza la necessità dover dimostrare nulla: l'alibi delle certezze scientifiche è una vergogna, quando in gioco ci sono le vite delle persone».


Sindrome dei Balcani - Nuova richiesta di archiviazione del gip di Bari dell'indagine sui militari italiani ammalatisi dopo essere stati esposti alle radiazioni dell'uranio impoverito, all'epoca della guerra nella ex Jugoslavia. Si riuscirà mai a venire a capo di tutta questa vicenda? Lo abbiamo chiesto a Falco Accame, presidente dell'Associazione nazionale dei familiari delle vittime delle Forze Armate
Nuova richiesta di archiviazione, da parte della procura di Bari, dell'indagine sui militari italiani colpiti dalla "Sindrome dei Balcani", ammalatisi e in alcuni casi morti dopo essere stati esposti alle radiazioni dell'uranio impoverito.
La richiesta di archiviazione è firmata dal pm inquirente, Ciro Angelillis, che aveva in corso un supplemento di indagine per verificare il rispetto della normativa antinfortunistica del ‘91 in relazione a casi di leucemie e tumori contratti da numerosi militari italiani che hanno operato in Bosnia e Kosovo durante la guerra nei Balcani, nel periodo 1993-1999. Già prima di procedere al supplemento di indagine, Angelillis aveva chiesto al gip l'archiviazione del fascicolo nel quale vengono ipotizzati i reati di lesioni e omicidi colposi, ritenendo fosse mancante il nesso causale tra l'utilizzazione di munizioni all'uranio impoverito (da parte di Usa e Gran Bretagna) e l'insorgenza delle malattie nei militari. E la stessa motivazione è, con tutta probabilità, alla base della nuova richiesta.
Ma il problema, dice oggi Falco Accame, ex presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio e presidente dell'Associazione nazionale dei familiari delle vittime delle Forze Armate non è stabilire se vi sia un diretto nesso di causa-effetto, bensì l'opposto: escludere "al di là di ogni ragionevole dubbio" che l'isotopo 238 dell'uranio possa essere la causa, o una concausa, delle leucemie e dei tumori che hanno colpito i soldati rientrai dai Balcani. Nessuno, infatti, sostiene Accame, ha mai provato la non pericolosità del metallo utilizzato per anni come rivestimento di munizioni e corazze, "neanche Mandelli".
Proprio in base alle conclusioni della commissione istituita dal ministero della Difesa e presieduta dall'ematologo Franco Mandelli, che nel 2002 giunse a una sostanziale "assoluzione" dei proiettili all'uranio impoverito, il pm Angelillis avanzò la prima richiesta di archiviazione delle indagini. Richiesta che venne respinta nell'aprile 2007 dal giudice Chiara Civitano, la quale ordinò al pm di compiere, entro 90 giorni, nuove indagini relativamente alla verifica delle misure antinfortunistiche. Eppure, ricorda oggi Accame, in un articolo scritto nel 2001 per il bimestrale scientifico "Epidemiologia e prevenzione", lo stesso prof. Mandelli affermava di non poter escludere il concorso dell'uranio impoverito nell'insorgere del linfoma di Hodgkin, un tipo di tumore riscontrato frequentemente tra le vittime della "Sindrome dei Balcani".
"Nel momento in cui una causa non si può escludere - aggiunge Accame - vige dunque il principio di precauzione. Per questo, gli Stati Uniti, che già si erano accorti della pericolosità dell'uranio durante la Guerra del Golfo del 1991, hanno dotato i loro uomini, in Somalia come nella ex-Jugoslavia, di tutte le misure necessarie a prevenire il contatto con le micro-polveri lasciate da questo metallo". Mentre i soldati italiani "se ne andavano in giro in maglietta e calzoncini".
Solo il 22 novembre 1999 sono state enunciate dalla Kfor, la forza militare a guida Nato in Kosovo, le norme di protezione contro l'uranio. Ma ormai era tardi, e le responsabilità, punta il dito Accame, vanno ricercate tra chi, durante la guerra nei Balcani, avrebbe dovuto adottare tempestivamente le adeguate misure di sicurezza, seguendo l'esempio degli americani, ma non l'ha fatto. Responsabilità tanto più gravi se si pensa che la pericolosità dell'uranio impoverito è conosciuta già dalla metà degli anni '80.
La domanda, a questo punto, è se si riuscirà mai a venire a capo di tutta questa vicenda, che a distanza di quindici anni continua a mietere vittime tra i reduci italiani della guerra nella ex-Jugoslavia. All'altro capo del telefono, la risposta è un sospiro rassegnato: "esistono dei poteri molto forti, primi tra tutti le forze armate, che muovono i fili della politica e che non hanno interesse a portare a galla la verità. Perché un'inchiesta seria rischierebbe di dimostrare la negligenza di chi, 15 anni fa, prendeva le decisioni, e non ha fatto nulla".
 
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