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50 anni di Europa. PDF Stampa E-mail

50 anni di Europa

Nel cinquantenario della firma dei trattati di Roma, che ricorre a marzo di quest'anno, un excursus del processo di integrazione europea, dalla nascita ad oggi

Ricorre a marzo di questo anno il cinquantenario della firma dei trattati di Roma del 1957 che diedero vita alla Comunità economica europea, nonché all'Euratom. Non è questa la sede per evocare le ragioni complesse che spinsero i leader di sei Paesi dell'Europa continentale a rilanciare il processo d'integrazione. Basti dire che alla fine del 1956 la Gran Bretagna e la Francia avevano tentato e fallito una sortita contro la nazionalizzazione del canale di Suez da parte del leader egiziano Nasser. I francesi, abbandonati dagli Stati Uniti, iniziarono faticosamente a convincersi di dover rinunciare ai sogni imperiali e che il loro futuro risiedeva anche in una più stretta cooperazione sul continente. Non fu facile ai liberisti tedeschi ed olandesi imporre a Parigi la strategia del rilancio attraverso l'abolizione delle barriere doganali ma, alla fine, in cambio di varie concessioni fra cui quella determinante dell'impegno a proteggere gli agricoltori europei (la Pac), il gioco riuscì.

E per la prima volta l'Europa mise d'accordo anche i socialdemocratici tedeschi e quelli socialisti francesi. Jean Monnet, nel tentativo di avanzare verso gli "Stati Uniti d'Europa" durante il biennio '55-'57, coinvolse profondamente i sindacati: "solo i partiti politici e i sindacati hanno allo stesso tempo la forza e quel tanto di disinteresse necessario alla costruzione dell'Europa". Ma questi ultimi si ritrovarono con poco in mano: la creazione di un Comitato sociale senza poteri e di una politica sociale senza soldi. L'avventura di una Comunità fatta da un mercato comune e istituzioni sovranazionali era cominciata.

Nel 1957 nessun uomo di Stato avrebbe potuto immaginare che qualche decennio dopo l'Unione europea avrebbe contato 27 nazioni, inglobando quasi per intero l'Europa comunista. Si dice che dopo il crollo del muro di Berlino l'integrazione europea abbia conosciuto un salto di qualità con l'euro e con l'allargamento ad Est. Ma è a partire dai rivolgimenti sociali del 1968, dalla crisi petrolifera del 1973, dall'impatto con l'emergere di nuovi fenomeni quale quello delle potenti economie asiatiche e dell'immigrazione, che l'Unione europea ha vissuto tutta una serie di rivoluzioni per adattarsi al processo di globalizzazione, molte delle quali dovrebbero destare riflessioni non contingenti.

1. Il declino dello Stato nazionale. Ancora fino agli inizi degli anni Settanta parlare della nazione come il terreno principale dell'economia, del confronto politico, della cultura aveva senso. I politici tornavano spesso al motto latino e respingevano fieramente il dialetto così come le parole straniere, oggi i ragazzi italiani ritornano ai dialetti locali e quelli francesi imitano i fratelli americani dicendo "c'est cool". Abbiamo sotto gli occhi un aumentato potere delle regioni che in tutta Europa stabiliscono relazioni dirette fra loro, si danno parlamenti nonché rappresentanze a Bruxelles e nelle altre capitali mondiali. Le stesse città guadagnano autonomia tanto che Roma, che presto godrà di speciali privilegi, appare assai più legata a Parigi di quanto non lo sia con Venezia contro la quale predilige la guerra culturale. E' questo un processo di decentramento anche sano, per il quale molti si sono battuti in passato, che continua a mettere in discussione l'assetto attuale delle carte fondamentali nazionali (ed anche le lingue) dalla Spagna, al Belgio, all'Italia, alla Gran Bretagna, e che trova una diretta espressione a Bruxelles nel comitato delle Regioni. E' un processo in cerca di uno sbocco che nel decentramento possa salvaguardare la coerenza dei servizi, la solidarietà a livello nazionale, fornire anticorpi contro dinamiche feudali che sembrano riprendere corpo in realtà nel Mezzogiorno italiano. E cos'è la battaglia in corso per la Costituzione europea (proprio quel nome sacro per una nazione!) se non la presa d'atto che lo Stato nazione ha perso la sua centralità in Europa.

2. L'inaridimento della battaglia politica. L'accresciuta mediaticità del confronto politico fino a averne una rappresentazione virtuale era ben avanzata nell'Italia di Berlusconi e sembra che in Francia stia raggiungendo nuove vette di perfezionamento con Ségolène Royal che è più un'acconciatura che un progetto per i socialisti. Il celebre storico belga Henri Pirenne diceva che, con l'eccezione di Carlomagno, tra le invasioni barbariche e Carlo V non vi furono grandi personalità politiche sul territorio europeo di cui narrare l'azione: che ciò non era un segno positivo perché si era vissuto un periodo di forti evoluzioni sociali ma anche di relativa stagnazione culturale ed economica. Verrebbe da pensare che nel trentennio dagli anni Settanta ad oggi si è andato ripetendo la stessa evoluzione sul continente: indebolimento della politica e dei grandi progetti anche di singole personalità, profondi sconvolgimenti sociali in un quadro di sostanziale stagnazione della crescita economica e culturale.

3. La ristrutturazione del "Welfare State". "Ristrutturare" o "riformare" è un termine neutro, ma nasconde una verità di segno diverso. Si tratta della progressiva privatizzazione delle industrie di Stato, di tutto un sistema di servizi pubblici e delle reti essenziali che in alcuni casi avevano fatto bancarotta per incompetenza, corruzione, o per entrambe. Si è iniziato con le telecomunicazioni, le reti ferroviarie e autostradali, l'energia elettrica, e in Italia, dove lo Stato sociale è sempre stato debole, il processo di privatizzazione avanza nella scuola, nella sanità e nella previdenza. L'idea di fondo è quella che la concorrenza fra privati favorirà un miglioramento della qualità e un abbassamento dei costi, e che tutto il sistema andrebbe controllato da autorità, le "authority", quanto più schermate dai giochi della politica. L'evoluzione in questo senso è però incompleta, le reti rimangono controllate dallo Stato, e lo Stato detiene quote importanti di industrie strategiche nell'ambito dei servizi . Il sistema è dunque allo stato attuale in una fase intermedia che potrebbe essere sfruttata per ridare un nuovo respiro europeo al pubblico e pensare nuove formule per la sua gestione. Se al contrario si creeranno grandi monopoli privati dei servizi, la realtà dell'integrazione europea sarà semplicemente quella di aver distrutto un patrimonio di vincoli con i cittadini che gli Stati nazionali erano riusciti a costruire.

4. La rinascita dell'Europa come attore militare. L'Europa, che dalla sconfitta a Suez nel 1956 si era chiamata fuori dalla partecipazione ad operazioni militari internazionali, nuovamente comincia ad accarezzare l'idea dei soldati come strumento di politica internazionale. E' successo per la prima volta con l'appoggio alla guerra Nato contro la Serbia nel 1999, è successo in Afghanistan e si è ripetuto in Iraq; e anche l'intervento in Libano sotto l'egida dell'Onu, nel momento in cui non è sostenuto da una reale iniziativa in favore dei popoli arabi assume i connotati di un'ambigua operazione di prestigio militare. Se il crollo dell'Urss aveva fatto pensare anche ad una possibile crisi della Nato questa appare salda al di là di superficiali conflitti, e il dibattito di oggi è semmai quello se includere anche il Giappone nell'alleanza dell'Occidente. L'Europa come potenza civile è uno slogan che nasconde la realtà che negli ultimi dieci anni non si sono fatti passi avanti in direzione di una politica estera comune. Il grande movimento pacifista europeo è rimasto sedato, senza riposte concrete, semplice testimone dell'espansione dello strumento militare.

5. Il multiculturalismo e la ricerca di un'identità. L'emergere di nuove aree del mondo e nuove culture che iniziano a permeare la nostra destano preoccupazioni e chiusure che in alcuni casi possono dare forza agli appelli della Chiesa cattolica di iscrivere i propri valori nel marmo dell'identità del cittadino europeo. Se la ricerca di una purezza identitaria nel passato, è certo la risposta al dato concreto di un'Europa che si fa più multiculturale, questa è una risposta che andrebbe scartata da tutta la sinistra in favore di una concentrazione sugli obiettivi ideali per il futuro e della pratica riforma di strutture economiche e sociali per adattarsi al cambiamento.

6. Il fermento di nuovi radicalismi sia di destra che di sinistra. A destra si è costituito nel Parlamento europeo, per la prima volta, un gruppo di venti parlamentari chiamato "Identità, tradizione, sovranità" che raccoglie insieme dai sostenitori di Le Pen ad Alessandra Mussolini. A sinistra emergono nuovi fenomeni che si collocano alla sinistra delle grandi socialdemocrazia e riscuotono notevoli consensi elettorali: da La Fontaine, al Partito socialista in Olanda, al peso crescente dell'alteromondismo sia in Italia che in Francia. Sono fenomeni di segno assai diverso perché l'uno rifiuta l'intero concetto dell'integrazione fra diversi, mentre il secondo mette in discussione la sua qualità, ma anche il sintomo di una grave indebolimento delle principali forza partitiche che potrebbe fungere da stimolo a un rapporto più forte di queste con i cittadini ma anche innescare una fuga in avanti in senso elitario delle tradizionali forze di centro destra e si centro sinistra.

7. La creazione di una società europea. In un certo senso una società europea è sempre esistita: anche la società feudale, o quella delle corti illuministiche, era una società continentale perché diffusa, appunto, in tutta Europa. Ma, a partire dagli anni Settanta una serie di fattori, dall'intensificazione delle comunicazioni alla diffusione dell'istruzione, hanno permesso che il fenomeno si espandesse a tutti i livelli sociali. Ciò sta avvenendo in forma largamente spontanea, solo in qualche caso sotto lo stimolo delle istituzioni europee (si pensi ad "Erasmus"). Si diffonde una cultura del cibo, i festival musicali e culturali, la coscienza del rispetto per l'ambiente, l'interrail come vero e proprio viaggio di iniziazione fra le città, le lingue non solo l'inglese ma anche lo spagnolo e il francese, i film coprodotti sui cui pure sta lavorando la Commissione europea, il Social forum europeo, le città in rete.

Sono elementi schematici, citati ovviamente in ordine sparso senza la pretesa di dare un ordine, in qualche caso in contraddizione l'uno con l'altro. La storia della rivoluzione innescata dal fenomeno della globalizzazione e del suo impatto in Europa non è ancora stata scritta. Rispetto alla vastità dei cambiamenti in atto resta però folle voler continuare a decidere dell'integrazione senza cercare un collegamento diretto con mezzo miliardo di cittadini europei, cioè senza chiamare in causa i cittadini non su migliaia di confusi articoli di un trattato preconfezionato ma su singoli punti dirimenti: volete una politica estera comune decisa a maggioranza? Chiedete delle quote per l'immigrazione? Volete una legislazione europea sull'orario di lavoro? Volete un sistema di servizi pubblici o privato? Credete che l'esercito europeo debba agire solo a scopo di difesa o anche in scenari fuori dall'Europa?

di Giuliano Garavini da Aprileonline

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