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La missione militare in Libano: Uno strumento della nuova politica estera italiana nel Mediterraneo. PDF Stampa E-mail

RISOLUZIONE DELL’ONU TRA RISCHI E SPERANZE DI PACE

ENNIO DI NOLFO

IL MESSAGGERO 14-8-06

LE RISOLUZIONI del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, come del resto tutti i documenti diplomatici, richiedono di essere esaminate con cura, nelle loro espressioni più sfumate, perché sia possibile valutarne la portata.

Scriveva Henry Kissinger in un suo famoso libro dedicato al Congresso di Vienna del 1815, che nessun compromesso è vitale se esso non rispecchia i “valori critici” delle parti interessate; cioè se non divide in modo equilibrato soddisfazione e insoddisfazione.

Solo così si può capire se il testo elaborato al Palazzo di Vetro l'11 agosto sarà un passaggio di pace o resterà sulla carta, come altri documenti delle Nazioni Unite.

E' importante osservare anzitutto che il documento non si ricollega esplicitamente né al cap. VI (intitolato:“Soluzione pacifica delle controversie”) né al cap. VII (“Azione rispetto alle minacce alla pace ecc.”) della Carta dell'Onu.

Ciò significa che l'intervento ha un carattere ibrido e si colloca tra la mediazione e l'azione militare che potrebbe, in teoria, diventare anche molto attiva.

Infatti le forze dell'Onu (punto 12 della risoluzione) sono autorizzate a svolgere «tutte le attività necessarie... per garantire che il territorio sudlibanese non venga utilizzato per alcuna azione aggressiva di alcun genere».

Un'espressione, questa, presa quasi letteralmente dagli artt. 42 e 48 (cap. VII) della Carta.

Al di là di questo inquadramento giuridico, occorre valutare come i “valori critici” delle parti in causa siano trattati.

Il punto di vista israeliano viene accolto quando si ribadisce la necessità di attuare la risoluzione 1559 del 2004, che chiedeva il disarmo degli hezbollah.

Il punto di vista israeliano viene accolto anche quando si afferma che le ostilità ebbero inizio il 12 luglio da parte degli hezbollah e quando si colloca fra le “cause” del conflitto il rapimento dei due soldati israeliani e se ne chiede «il rilascio senza condizioni».

Ciò che non trova risposta è invece l'auspicio israeliano che la minaccia degli hezbollah venga sradicata con la forza, sebbene in linea di principio il concetto attraversi tutta la risoluzione.

In questo senso il progetto israeliano, di cogliere l'occasione per eliminare definitivamente un pericolo, appare bloccato dalla necessità del compromesso.

Ma era un “valore critico” o una speranza utopistica?

Il progetto israeliano viene sostituito dalla creazione di una zona cuscinetto nel Libano meridionale, presidiata da 15.000 soldati dell'esercito libanese e da circa 15.000 uomini messi a disposizione dell'Onu dai paesi che aderiranno alla richiesta.

Su questo punto il nodo si aggroviglia.

Infatti la sicurezza israeliana e il successo vantato dal premier libanese Siniora starebbero nell'impegno di affidare la tutela di questo territorio a forze miste libanesi e internazionali.

Mentre la presenza delle forze internazionali costituisce una garanzia (purché i 15.000 uomini siano dispiegati sul terreno con sufficiente rapidità), i dubbi sorgono quando si pensa al difficile compito affidato all'esercito libanese.

A questo proposito, Siniora si è mostrato molto soddisfatto del risultato raggiunto.

Se si scorrono le affermazioni contenute nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza questa soddisfazione parrebbe giustificata.

Più volte, il documento apprezza gli sforzi del primo ministro libanese per «estendere l'autorità del governo libanese su tutto il suo territorio» grazie all'azione delle sue «forze armate legittime»; più volte ribadisce la necessità che sul territorio libanese non vi debbano essere altre forze armate senza l'approvazione del governo legittimo.

In tutti i passaggi chiave, nel punto 3, nel punto 8, nel punto 12 e nel punto 14, la risoluzione «enfatizza l'importanza dell'estensione del controllo del governo libanese su tutto il suo territorio» in collegamento con l'applicazione della ormai famosa risoluzione 1559 (che chiedeva il disarmo degli hezbollah), ma proprio questa è l'altro aspetto del compromesso che deve essere considerato e che circoscrive la “soddisfazione” di Siniora.

Se Israele rinuncia alle sue massime ambizioni, eguale sarà l'atteggiamento degli hezbollah?

Non bisogna dimenticare infatti che quando si parla di “governo libanese” si fa riferimento a un soggetto che comprende anche ministri hezbollah.

E bisogna tenere presente che le forze del Partito di Dio hanno dato prova di essere assai più robuste del previsto e perfettamente integrabili nell'ambito dell'esercito libanese.

Così l'esito sarebbe quello di lasciare che gli hezbollah mantengano l'influenza di cui godono ora e finiscano per apparire i veri vincitori della difficile battaglia.

Il loro principale “valore critico” sarebbe accolto, in contrasto con le esigenze israeliane.

Non si tratta di un risultato scontato.

Molto dipenderà dall'efficacia della presenza dell'Onu; molto, anche, dalla capacità dei libanesi di integrare davvero nel loro esercito reparti che dispongono di risorse militari fornite dall'esterno, cioè dalla Siria e dall'Iran.

Ma nulla vieta di confidare che la forza del compromesso e l'emergere di un inevitabile aspro dibattito politico interno in Libano (un paese trascinato verso la rovina per opera di un partito estremistico) possano infine concludersi con il riconoscimento dell'identità nazionale di una nazione che, già all'avanguardia del progresso nel Medio Oriente, potrebbe ritornare a esserlo, assieme a Israele, qualora gli estremisti non riuscissero a prevalere.

E molto dipenderà dalla misura in cui gli Stati Uniti, che appaiono essere stati i registi dell'operazione, riusciranno a mantenerla entro limiti accettabili per tutti.

************************************************************* M.O.: DI PAOLA, SU ARMI HEZBOLLAH INTERVERREMO CON FORZE LIBANESI Pristina, 1 set. (Adnkronos) - Qualora vengano intercettati Hezbollah con armi i militari della Forza UNIFIL interverranno d'intesa con le forze armate libanesi. Lo ha spiegato il capo di Stato maggiore della Difesa, Gianpaolo Di Paola, conversando con i giornalisti a Pristina, dove si trova per la cerimonia del passaggio di comando dall'Italia alla Germania della missione di pace a guida Nato Kfor. *************************************************************

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La strategia

I rischi, le insidie e il fattore G

L'altra faccia della missione in Libano: peso internazionale e «fattore Germania»

Il nostro interesse alla pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo, il nostro appoggio all’ONU e alla presenza dell’Europa, ma anche, assai più discretamente, la necessità di rispondere a quel «fattore Germania» che minacciava di emarginarci dalle grandi questioni internazionali. Sono questi i motivi che hanno indotto l’Italia a far parte della forza militare per il Libano, ed è un bene che il governo abbia verificato l’esistenza di un consenso bipartisan a sostegno dell’annunciata missione.

Perché i rischi e le insidie davvero non mancheranno. La risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza, inizialmente favorevole a Israele, dopo gli emendamenti reclamati da Beirut è diventata un capolavoro di ambiguità. La «nuova UNIFIL», che conserverà il nome della sfortunata e inefficace forza ONU già presente da anni nel Sud del Libano, non mancherà di uomini e mezzi. Ma i suoi compiti restano vaghi e si prestano a interpretazioni contrastanti, le regole d’ingaggio ancora da stabilire non potranno fare chiarezza ora che è stato cancellato il riferimento al capitolo VII della Carta dell’ONU, e resta così da scoprire ad opera di chi, come e quando si procederà al previsto disarmo di Hezbollah.

Non solo. Gli israeliani hanno scatenato un’offensiva su larga scala in attesa della tregua annunciata per stamane, e altrettanto ha fatto Hezbollah con i suoi lanci di razzi sulla Galilea. Chi si fermerà, e quando? Il governo di Gerusalemme ritiene che la risoluzione ONU gli consenta di continuare a condurre operazioni militari «difensive » nel Sud del Libano, pare di capire assai poco diverse da quelle condotte finora. E aggiunge che il ritorno in patria delle forze israeliane non avverrà prima del completo spiegamento della forza ONU e delle forze regolari libanesi, proprio mentre Hezbollah precisa che le sue iniziative militari continueranno fino a quando resterà un solo soldato israeliano sul suolo libanese.

Tutto ampiamente prevedibile e previsto. Ma come potrà dispiegarsi, in queste condizioni, la tanto invocata forza ONU cui l’Italia vuole partecipare? Correrà il rischio di trovarsi tra due fuochi? E soprattutto, cosa farà l’Iran a fine mese quando l’ONU dovrà cominciare a mettere in cantiere sanzioni anti-Teheran relative ai suoi programmi nucleari? Hezbollah non tornerà a dar fuoco alle polveri, ammesso che l’incendio sia stato parzialmente domato prima?

Con simili interrogativi ancora sul tappeto, e alla luce della scarsa fortuna che per decenni ha accompagnato le risoluzioni dell’ONU in Medio Oriente, diventa d’obbligo una cautissima attesa degli eventi. Senza cancellare l’impressione che finora sia stato Hezbollah (e dunque l’Iran) a trarre il maggior vantaggio da una guerra voluta, che la sorte della «Rivoluzione dei cedri » in Libano (unico vero successo di Bush nella regione) rimanga a rischio, e che il prezzo pagato dai civili rappresenti un’onta per tutte le parti in causa.

Cosa ha a che fare allora la Germania con una guerra che non la vede in alcun modo protagonista? Perché esiste anche un «fattore G» all’origine della scelta italiana di mandare i suoi soldati a cercare la pace nel Sud del Libano? Per dare una risposta occorre tornare al 17 luglio scorso, al G-8 di San Pietroburgo. Quella mattina arriva sulla Neva il segretario dell’ONU Kofi Annan, e propone di far fronte al conflitto già scoppiato tra Israele e Hezbollah con l’invio di una forza multinazionale di interposizione benedetta dal Palazzo di Vetro. I primi a sostenere calorosamente l’idea sono Prodi e Blair, con la differenza che quest’ultimo si guarda dall’offrire truppe britanniche (che difatti non andranno in Libano, come non ci andranno quelle statunitensi). Da Roma il ministro D’Alema approva. Perché tanta sollecita volontà di presenza, malgrado i rischi già intuibili e i delicati equilibri parlamentari italiani? Perché l’ancora ipotetica forza di pace viene vista sì come un dovere morale, ma anche come un’occasione politica?

Le ragioni sono diverse. Il governo di centrosinistra vuole completare con nuove iniziative la «discontinuità» già fatta valere in Iraq. Vuole recuperare all’Italia la visibilità internazionale che a suo giudizio Berlusconi ha compromesso. Ma soprattutto, vuole risalire la china discendente imposta al nostro Paese, guarda caso, dalla crisi del nucleare iraniano.

Benché l’Italia intrattenga da anni un dialogo con Teheran e sia il suo primo partner commerciale, a trattare con l’Iran sono inglesi, francesi e tedeschi. Non basta. Quando anche gli USA scendono in campo, si forma il nucleo dei «Cinque più Uno», vale a dire i membri del Consiglio di sicurezza più la Germania. Un nucleo che rischia di consolidarsi per tutte le grandi crisi internazionali malgrado i nostri tentativi di accrescere l’importanza del G-8, e che ci risulta tanto più sgradito se si tiene conto che per anni, indipendentemente dai governi in carica, la nostra diplomazia ha cercato di evitare un allargamento del Consiglio di sicurezza che ci escludesse e aprisse le porte a Berlino.

Non che la Germania di Angela Merkel venga mal vista a Roma, al contrario. Prodi ha un ottimo rapporto con la Cancelliera, e in sede europea è proprio su un’alleanza con la Germania che l’Italia punta. Ma senza nulla voler togliere agli amici tedeschi, il governo attende un’occasione per dimostrare che sulla scena internazionale l’Italia può fare quanto Berlino, e talvolta anche di più. La proposta di Kofi Annan è questa occasione, tanto più che dalle parti di Israele la Germania è poco propensa a mandare i suoi soldati (e tuttora non è noto se lo farà). Andare in Libano, insomma, è anche una questione di rango.

Il «fattore tedesco», occorre ripeterlo, si affianca ad altre motivazioni nel sostenere la scelta italiana. E riguarda la nostra capacità e la nostra credibilità che si vuole riaffermare, non il governo tedesco che nulla fa se non la sua legittima politica da Paese di primaria importanza. Ma nella sorte della rischiosa missione libanese c’è in ballo anche questo: la riconquista di un diritto di presenza che era parso appannarsi.

Franco Venturini

14 agosto 2006

Corriere della Sera

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ESTERI

L’ANNUNCIO E’ IL PRIMO ATTO FORMALE VERSO LA FINE DELL’OPERAZIONE ANTICA BABILONIA. PREVISTO ANCHE IL PASSAGGIO DEI POTERI DI POLIZIA NELLE MANI DEL NUOVO ESECUTIVO

Il primo ministro dell'Iraq
«Iniziato il ritiro italiano»

E domani i nostri «caschi blu» sbarcheranno in Libano

1/9/2006

di Francesco Grignetti



ROMA. E’ iniziato ieri il ritiro dall’Iraq. Con un annuncio ufficiale del premier iracheno Al Maliki, s’è dato avvio a un processo formale che nel giro di quarantacinque giorni vedrà passare la responsabilità della sicurezza dagli italiani alle forze locali. Non soltanto uomini e mezzi si vanno trasferendo a plotoni verso l’Italia, quindi, ma le cose stanno evolvendo anche dal punto di vista giuridico. Il trasferimento delle consegne si concluderà con la firma di un memorandum tra il comandante della divisione britannica, sotto il cui comando opera il contingente italiano, e il governatore della provincia del Dhi Qar, a metà ottobre. Per l’occasione ci sarà a Nassiriya una solenne cerimonia che sancirà l’uscita di scena dall’esercito italiano.

Era un annuncio molto atteso, a Roma. Subito si dice molto soddisfatta la Farnesina. «Si apre ora - scrive il ministero retto da Massimo D’Alema - una nuova fase della transizione nella provincia, che comporta un ruolo diretto delle istituzioni irachene democraticamente elette». Democraticamente, dunque. Ma il comunicato del ministero degli Esteri suona anche da riconoscimento all’impegno tanto contestato del precedente governo. «Tale risultato è il coronamento dell’enorme e variegato impegno profuso dal nostro Paese sia nel campo civile che in quello militare a favore della stabilizzazione e della ricostruzione dell’Iraq».

Gli fa eco il ministro della Difesa, Arturo Parisi: «Il passaggio di consegne testimonia il risultato raggiunto nella provincia dal contingente italiano, che ha portato a compimento il proprio compito». Grazie al supporto italiano, aggiunge il ministro della Difesa, ora sono «pienamente autonome le forze di sicurezza» ed è stato progressivamente garantita la «piena capacità di autogoverno alle autorità civili». Insomma, nel sottolineare il successo di questi tre anni di missione militare a Nassiriya, i ministri del centrosinistra concedono l’onore delle armi a Berlusconi e Martino. Parisi può intanto confermare che entro l’autunno ci sarà il «completo rientro del nostro contingente dall’Iraq secondo gli impegni assunti di fronte al Paese: nell’ordine, nella sicurezza, e sulla base di accordi con le forze alleate e il governo iracheno».

Il passaggio di consegne dalle forze delle Coalizione alla polizia locale, in effetti, interessa diverse province. Ieri, assieme a Nassiriya, l’annuncio riguardava Kirkuk, città del nord, al centro di immensi campi petroliferi, abitata in maggioranza da curdi. Poche settimane fa si è concluso il processo nella provincia di Muthanna. A luglio, le forze irachene avevano rilevato il controllo della sicurezza dai giapponesi a Samawa. E’ in corso il processo per la provincia di Amara. Il premier Al Maliki ha fretta di dimostrare alla sua gente, a dispetto degli attentati della strisciante guerra civile, che il governo legittimo sta riprendendo possesso del territorio.

Tutto bene, allora, a Nassiriya? Non proprio. Pare che il 21 luglio ci sia stato un grave incidente al campo italiano: sei soldati sarebbero rimasti feriti a causa di un’esplosione accidentale verificatasi nell’ospedale militare. «L’esplosione di alcuni reagenti chimici ha causato il ferimento di sei militari italiani, poi trasferiti in Italia all’ospedale del Celio e di ciò non si è saputo nulla», denuncia Falco Accame, presidente dell’associazione Anavafaf che raccoglie familiari di vittime appartenenti alle forze armate. Il più grave pare essere un carabiniere intossicato dal fumo. Il colonnello Francesco Tirino, portavoce del contingente, però minimizza: «Nessun ustionato. Un solo militare è stato rimpatriato a scopo precauzionale per aver sofferto di una patologia respiratoria più particolare».

 
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