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Intervento in Parlamento dell'on. Silvana PISA sul rinnovo della missione in Iraq. PDF Stampa E-mail

Intervento in Parlamento dell'on. Silvana PISA sul rinnovo della missione in Iraq

 

Signor Presidente, cercherò di svolgere un intervento il più breve possibile.

Le missioni internazionali, ossia le questioni riguardanti la pace e la guerra, che, quindi, rivestono una certa rilevanza, sono trattate all'articolo 39-vicies bis del cosiddetto provvedimento «mille proroghe». Ciò dimostra, anche formalmente, un'idea di banalizzazione della guerra - vicies bis! -, che la dice lunga sull'idea del mondo concepita da questo Governo.

Si scippa al Parlamento la possibilità di discutere nel merito anche del rinnovo della missione irachena. Infatti, la prosecuzione della missione è stata autorizzata senza una valutazione dei fatti e delle nuove tensioni che si stanno producendo in Medio Oriente: mi riferisco alla vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi, mi riferisco al Libano ed alle turbolenze che in questi mesi lo attraversano, nonché alla vicenda dell'arricchimento dell'uranio in Iran (peraltro, vorrei dire sommessamente, tra parentesi, che la condanna delle armi nucleari, per essere credibile, dovrebbe valere per tutti, anche per Israele e per il Pakistan, per non parlare dei paesi limitrofi).

Si dispone pertanto la prosecuzione della missione in Iraq senza uno sguardo che comprenda, nella sua ampia panoramica, il sempre più stringente posizionarsi di due blocchi (per semplificare: Occidente ed Oriente) attorno alle aree ricche di risorse energetiche. Questo è il tema! A tal proposito, leggiamo con favore la proposta di Rumsfeld di mirare ad abbandonare gli interessi energetici all'estero.

Si tratta di un rinnovo che ignora completamente il tumultuoso vento integralista e fondamentalista - ne hanno parlato i colleghi - che in questi giorni soffia in sempre più numerosi paesi del Medio Oriente, che è strettamente collegato - e sottolineo: strettamente collegato - con quanto accaduto in Iraq. È collegato e dipendente rispetto a quanto successo in Iraq.

In questo complesso quadro sono iscritte le vere ragioni dell'occupazione irachena, ed esso costituisce lo scenario in cui si svolge quella che il Governo ha definito la «transizione» irachena, e che noi chiamiamo la «tragedia» irachena. È una tragedia procurata da soggetti precisi (Bush, Blair, i cosiddetti willings). Né il ministro Martino, né i sottosegretari Boniver e Cicu, nel corso della loro audizione, hanno fatto cenno a tutto ciò, come se nel mondo non succedesse nulla. Si sono limitati a leggere un compitino idilliaco, autocelebrativo, autoassolutorio e autoreferenziale: tutto va bene, è stato un successo, come siamo stati bravi! Tutto ciò, guardandosi bene dal rispondere, nel corso dell'audizione in Commissione, alle tante ragioni ed alle tante domande dell'opposizione.

Peraltro, nemmeno vi informate di ciò che sta succedendo oggi negli Stati Uniti e di come la pensano oggi rispetto alla vicenda irachena.

Il teorico neocon Pipes afferma che l'Iraq rappresenta il punto di crisi dell'egemonia americana nel mondo e che l'ideologia dell'esportazione della democrazia - udite! Udite! - forse va ripensata e che comunque ritiene che i tempi saranno lunghi e che serva un altro approccio.

Il capo di stato maggiore degli Stati Uniti, il generale Peter Pace, in un'intervista a Fox News, che è il canale di Murdock, afferma che gli iracheni si augurano che le forze della coalizione lascino il paese al più presto.

Non solo: l'ispettore generale per la ricostruzione, Stewart Bowen, nel suo rapporto al Congresso degli Stati Uniti, denuncia il fallimento della ricostruzione, dicendo che, per quanto riguarda il petrolio e l'elettricità, la situazione è peggiorata rispetto a prima della guerra, nella misura che solo il 30 per cento della rete elettrica funziona, mentre prima della guerra funzionava il 50 per cento.

La massima parte - dice Bowen - delle spese destinate alla ricostruzione è stata stornata per la sicurezza. È una guerriglia continua, infatti, e ci sono incendi, contractors, costruzione di prigioni, eccetera. Anche nel sud del paese, dove la situazione è più tranquilla e, quindi, i problemi di sicurezza sono minori, la ricostruzione non marcia.

Allora, per cosa sono stati impiegati questi fondi? Sono stati usati per la costruzione di basi militari, come si sa utilissime ai cittadini iracheni!

Insomma, vi è il chiaro riconoscimento del fallimento di una strategia dal punto di vista politico, militare e civile. L'America, che credo sia una grande democrazia, è capace, a volte, di raccontarsi i suoi limiti.

Nulla di tutto questo è presente nelle parole del Governo e dei relatori. Si citano sempre le risoluzioni dell'ONU, senza mai accennare al fatto che sono state identificate nel loro punto fondamentale, ossia quel Comando unificato della Forza multinazionale, che, pur in un'impresa sciagurata come quella irachena, avrebbe dato pari dignità agli alleati.

Invece, il Comando unificato non c'è mai stato e solo così si può spiegare, non giustificare - lo sottolineo -, la reticenza degli Stati Uniti sull'uccisione del dottor Calipari. Solo così si può spiegare anche la mancanza di notizie agli alleati sui bombardamenti al fosforo su Falluja.

Ricordo che il sottosegretario Berselli, qui in aula, ci ha detto: se lo avessimo saputo, non avremmo esitato a prendere iniziative sul piano internazionale e diplomatico. Ma perché non lo sapevano? La nostra intelligence opera a Baghdad oppure no? Non esiste tra noi e il Comando degli Stati Uniti almeno un'elevata collaborazione di Comandi, come ha citato il sottosegretario?

La realtà è che, in pratica, abbiamo rinunciato alla nostra sovranità. Questo Governo ha portato i nostri soldati in una catena di Comando che ci vede sudditi, in un'impresa fallimentare di cui è totalmente responsabile, senza aver mai riconosciuto i propri errori e la propria connivenza. Ne hanno parlato i colleghi e, in particolare, benissimo la collega Pinotti e non voglio ripetermi.

Voglio ricordare solo che dopo tre anni non vi è nessun serio bilancio che dica finalmente ciò che noi chiediamo continuamente: perché, per chi e per cosa siamo andati in Iraq. Anche un autorevole rappresentante, come il presidente Andreotti, durante le audizioni ha detto: perché c'è stata l'occupazione dell'Iraq? È la stessa domanda che ci siamo posti anche noi.

Non si può discutere della proroga di una missione - ha detto sempre il senatore Andreotti - senza pagare questo debito nei confronti della storia. Io direi: anche nei confronti del paese e dei nostri militari.

È stata una delle più gravi rotture della comunità internazionale che si è determinata senza ragione, con prove false e menzogne, e ha provocato conseguenze che stanno incendiando il mondo. Di questo avremmo dovuto parlare.

Invece, il ministro Martino ha prospettato una riduzione del contingente militare e ha auspicato l'evoluzione progressiva della missione militare in missione mista, militare e civile, sulla falsariga dei piani di ricostruzione afgani.

La nuova missione si dovrebbe chiamare Nuova Babilonia, in sostanziale continuità con Antica Babilonia, e dovrebbe occuparsi essenzialmente di ricostruzione. Anche in questo caso la contraddizione è evidente: si parla della provincia di Nassiriya come di un territorio tranquillo in tutta la relazione. Allora, se si tratta di curare i bambini non servono i carabinieri, ma i pediatri; se si tratta di costruire case, pozzi, scuole ed ospedali servono ingegneri e non militari. In realtà, per come è stata prospettata, si tratterebbe di un'occupazione militare camuffata e non costituirebbe alcuna discontinuità. Non solo: in questi mesi abbiamo addestrato Forze di polizia e forze militari irachene ed i compiti di sicurezza dovrebbero spettare a loro. La contraddizione maggiore è che questa prospettiva riguarderebbe, comunque, il periodo successivo alla proroga in discussione, cioè da giugno in poi, e sarà di competenza del nuovo Governo e del nuovo Parlamento che, ci auguriamo, sarà portatore di un progetto di pace.

Signor Presidente, concludo perché mi rendo conto che è tardi. Credo che questa missione, per come è stata presentata - il ministro Martino ha parlato di strategia del successo - non solo consista in una rimozione delle responsabilità, ma dimostri anche un cinismo sorprendente, naturalmente si tratta della mia opinione.

Ricordo all'Assemblea che la guerra e l'occupazione irachena sono costate la morte di più di 30 mila civili, tra cui bambini, vecchi e donne, di 2.500 soldati, per lo più giovani uomini, e tantissimi feriti, più di 16 mila solo quelli americani. Dunque, trattarla come strategia di successo significa non aver capito il patto che le varie componenti politiche fecero a dicembre che, come primo punto, prevedeva il rientro di tutti i militari stranieri da quel paese. Finché ci sono le truppe straniere non ci sarà pacificazione dell'Iraq. Prima i militari tornano tutti, meglio è per quell'area e per il resto del mondo.

(Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).

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