I pirati ed i marò: speciale sull'incidente internazionale con lIndia Stampa

Pirateria marittima: militari o contractors a difesa delle navi commerciali italiane?

In Italia in questi giorni si dibatte se sia meglio avere i militari o i contractors a bordo delle navi commerciali di bandiera per difenderle dai pirati.

A causa del fenomeno della pirateria marittima infatti, in meno di tre anni non pochi Paesi hanno deciso di imbarcare sulle loro navi mercantili team di sicurezza armati per difenderle dai tentativi di abbordaggio e tanti altri stanno aderendo a questa scelta.
Questo fenomeno è una delle più recenti piaghe che assillano le marinerie mondiali in particolari aree del mondo.
L'area più a rischio è quella del bacino somalo e Oceano Indiano dove scorrazzano in lungo e in largo gang del mare somale alla caccia di prede facili, navi indifese, da catturare e per il cui rilascio poi, chiedono riscatti milionari. Per ottenerli hanno dimostrato che sono disposti anche ad attendere mesi se non anni.

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Finora a poco sono serviti i pattugliamenti in mare condotti dalle navi da guerra di almeno 25 Paesi. Una vera e propria flotta internazionale anti pirati raccolta una parte in tre missioni a guida ONU, NATO e Ue, e altre operative in maniera individuale.
Per tutti però, un unico scopo quello di proteggere dai pirati le navi commerciali di bandiera.
Per gli scarsi risultati raccolti da queste navi da guerra, a fronte di alti costi circa 2 mld di dollari l'anno, nel contrastare la pirateria marittima al largo della Somalia e nell'Oceano Indiano si era temuto che il fenomeno fosse invincibile.
Un manipolo di pirati somali teneva infatti, in scacco le Marine Militari di mezzo mondo. Tanti infatti, i Paesi che in nome della lotta alla pirateria marittima avevano inviato una o più loro navi nel ‘mare dei pirati'.
Italia, Germania, Olanda, Francia, Inghilterra, Spagna, India, Iran, Corea del Sud, Giappone, Australia, Sri Lanka, Pakistan, Russia, Cina e tanti altri si sono mobilitati perché i pirati somali minacciavano la rotta che collega l'Asia all'Europa e lungo la quale ogni anno transitano almeno 40mila navi, metà nell'Oceano Indiano e metà attraverso il Golfo di Aden.
In meno di un anno i team di sicurezza sono riusciti dove queste flotte internazionali hanno fallito.
Al solo vederli a bordo delle navi mercantili i pirati somali cambiano rotta.
Un fatto che ha portato il fenomeno a regredire fino a raggiungere quote misere nella cattura di navi.
Dalle 4-5 navi al mese catturate si è passati ad una sola e anche a nessuna.
Un dato di fatto che ha dimostrato vincente il ricorso ai team di sicurezza a bordo dei mercantili.
Questo però, ha anche scatenato un senso di ‘mortificazione' in chi si è visto superare.
Dall'estate scorsa anche le navi commerciali battenti bandiera italiana posso usufruire di team di sicurezza a bordo. Sono circa 2mila le navi battenti il tricolore che ogni anno solcano le acque dell'Oceano Indiano.
Questi team sono composti da militari della Marina, gli specialisti del Reggimento San Marco, ed hanno anche un nome, Nuclei Militari di Protezione, NMP.
Numerose altre forze armate chiedono però, di poter partecipare a questa attività di prevenzione armata. In teoria possono in quanto è previsto dalla legge in vigore.
Attualmente sono disponibili 10 nuclei composti ognuno da 6 militari della Marina.
Tutto questo ha una definizione: prestazione di servizi finalizzata alla protezione delle Navi di bandiera italiana mediante l'imbarco di Nuclei
Militari di Protezione, NMP.
I costi del ricorso agli NMP sono a carico degli armatori che pagano circa 3mila euro al giorno.
In genere il servizio è espletato per un periodo operativo di 10-15 giorni. Per cui, mediamente ogni volta che vi ricorre, un armatore sborsa di tasca propria circa 45mila euro a viaggio.
I militari a bordo però, non hanno alcun vincolo gerarchico nei confronti del comandante della nave. Ogni militare imbarcato su un mercantile, infatti, risponde esclusivamente al comando con base a Gibuti.
Le regole di ingaggio che regolamentano l'attività di questi team si basano sul principio dell'autodifesa. I militari italiani devono limitarsi solo ad azioni che impediscono il sequestro della nave, ricorrendo a segnali luminosi, radio e ad azioni puramente intimidatore come raffiche sequenziali dirette in aria e in acqua per far allontanare gli assalitori.
Il ricorso al fuoco diretto sull'assalitore è possibile solo come ultima risorsa.
Le direttive, le regole di ingaggio e le misure di contrasto sono state emanate dal ministero della Difesa ai sensi dell'articolo 5 del decreto-legge 12 luglio 2011, n. 107, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2011, n. 130
Anzi con un decreto ministeriale, il primo settembre del 2011, il dicastero della Difesa ha anche individuato l'area a rischio pirateria marittima, la High Risk Area, HRA.
Almeno fino al 15 febbraio scorso nessuno aveva mostrato perplessità in merito all'esigenza del governo italiano e del Parlamento, che insieme a Confitarma avevano fortissimamente voluto i militari italiani a bordo delle navi di bandiera che navigano nelle acque internazionali infestate dai pirati.
Ora invece, dopo l'incidente accaduto alla Motonave Enrica Lexie nell'Oceano Indiano al largo delle coste indiane si è alzato un coro unanime che chiede di sostituire i militari con i contractors nella difesa delle navi commerciali italiane.
In particolare si parla dei "Security Contractor" che sono guardie private, in genere ex militari delle forze speciali dei vari eserciti del mondo, in particolare USA e Gran Bretagna ma anche italiani, che per denaro compiono azioni di tipo militari per conto di un privato, di una società o di uno Stato.
Il tutto è regolato con il committente da un contratto prestabilito ed accettato contestualmente dalle due parti.
La particolarità del servirsi dei contractor è data infatti, che a stabilire i loro doveri verso il committente, privato o governo di uno stato che sia, è un contratto. Nel caso dei militari invece, non vi è contratto in quanto questi sono come dei funzionari di quel Paese e operano per quel Paese che poi, risponde delle loro azioni. Come il caso Enrica Lexie dimostra.

di Ferdinando Pelliccia Libero Reporter

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Sul caso "Enrica Lexie" qualcuno sta facendo l'indiano

I lettori si stanno ponendo molti interrogativi sulla storia dei due militari del Reggimento "San Marco" consegnati alle autorità indiane dopo l'attacco alla nave "Enrica Lexie" da parte di un'imbarcazione di "pirati" al largo dell'India. Proviamo a dare qualche risposta, pur nella consapevolezza che la ricerca delle risposte scatena spesso ulteriori domande.
Cosa ci facevano il Capo di Prima Classe Massimiliano Latorre e il Maresciallo Salvatore Girone sulla nave? Facevano parte di un NMP o "nucleo militare di protezione" di sei militari imbarcato sulla petroliera in ossequio ad un protocollo d'intesa stipulato fra la Difesa e la Confitarma (Confederazione Italiana Armatori) l'11 ottobre 2011.
Cosa dice l'accordo fra la Difesa e la Confitarma? L'accordo prevede la presenza a bordo di militari delle Forze Armate italiane in funzione anti-pirateria che, all'occorrenza, agiscono in base a meticolose "regole d'ingaggio". Su questo fatto sono state pronunciate talvolta parole fumose o fuorvianti, come nel caso di quei media che hanno affermato che "i militari agiscono isolati e non sono coordinati da un comandante". Difficile crederlo, perché quand'anche i militari fossero solo due, il più alto in grado è comunque il comandante. E se sono dello stesso grado, il comandante sarà il più anziano. Inoltre, anche se il militare agisse da solo, avrebbe sempre un comandante cui rispondere e con il quale deve stare in contatto con gli appositi mezzi. Caso mai è vero che i militari non hanno -e ci mancherebbe altro- alcun vincolo di subordinazione gerarchica nei confronti del comandante della nave.
Ma il problema principale è un altro: i veri termini dell'accordo ed i suoi risvolti operativi non sono noti al pubblico, e probabilmente è giusto così, perché renderlo di dominio pubblico significherebbe farlo sapere anche ai pirati e ai loro mandanti. Ma in ogni caso sarebbe opportuno sapere se fosse stato previsto il recupero immediato dei militari in caso di necessità a mezzo elicotteri o altro. Era previsto in caso di emergenza o di grave incidente il loro trasferimento in Italia e la loro messa a disposizione della magistratura italiana? Era prevista una teleconferenza periodica con Roma come se ne fanno spesso con i militari impiegati all'estero? Oppure quei militari sono stati imbarcati e contestualmente abbandonati a loro stessi sperando italicamente che non accadesse nulla?
Dove è avvenuto l'incidente? Secondo le autorità indiane è avvenuto in acque nazionali, secondo i nostri in acque internazionali. I dati rilevati dalla strumentazione satellitare danno ragione agli italiani: il posto del fattaccio, secondo il GPS che può sbagliare al massimo di cinque metri, si trova a 33 miglia dalla costa sudoccidentale indiana.
Quale è stata la dinamica dell'incidente? Le versioni sono contrastanti. Secondo gli indiani un peschereccio, il "St. Anthony", svolgeva normale attività di pesca in una certa località quando alle 21,50 di mercoledì 15 febbraio è stato bersagliato da circa 60 colpi, 16 dei quali hanno colpito il peschereccio e quattro di questi hanno causato la morte di due pescatori. Secondo gli italiani, invece, alle ore 16,30 in una località nota per la presenza di pirati i terroristi ma distante 10 chilometri da quella segnalata dalle autorità indiane, un'imbarcazione con a bordo cinque individui armati si è avvicinata con atteggiamento ostile alla petroliera con l'evidente scopo di abbordarla. In base alle procedure previste, sono state effettuate tre raffiche di avvertimento per un totale di 20 colpi, senza colpire l'imbarcazione, quando questa si trovava rispettivamente a 500, 300 e 100 metri di distanza. Dopo la terza raffica i "pirati", evidentemente dissuasi dall'aver constatato che la petroliera era difesa, hanno operato una virata a "U" e si sono dileguati. Come mai tante differenze nelle due relazioni? Tutto si spiega ammettendo che si sono verificati due diversi conflitti a fuoco in due località diverse, cosa avvenuta realmente e ammessa dalle stesse autorità indiane.
Non dovrebbe risultare difficile stabilire se i due malcapitati siano stati colpiti dai proiettili dei fucili mitragliatori SC 70/90 calibro 5,56 in dotazione ai nostri marò ovvero da qualche arma diversa. Peccato che le autorità indiane si rifiutino di procedere con gli esami medici e balistici (anzi: i due poveracci sono stati già cremati) e peccato che il peschereccio non presenti fori di proiettili a prua, dove giacevano i due corpi.
Perché la nave ha attraccato in India, nel porto di Kochi? Perché gliel'hanno ordinato. Chi esattamente? Non di certo la Marina Militare, che aveva chiaramente raccomandato di non farlo e tantomeno di far scendere a terra i due militari. Sicuramente gliel'ha ordinato la Capitaneria di porto dello stato indiano del Kerala responsabile per territorio, che ha interrogato via radio diverse unità navali presenti nell'area chiedendo chi avesse sventato un attacco di pirati. La "Enrica Lexie", non avendo nulla da nascondere, ha risposto affermativamente (allo stesso modo, chi aveva qualcosa da nascondere potrebbe aver fatto finta di nulla) ed è stata invitata a raggiungere il porto di Kochi per accertamenti. Da notare che, per ammissione degli stessi indiani, la petroliera è stata indotta a dirigere la prua verso Kochi con l'inganno ("tattica ingegnosa", l'ha definita il comandante della guardia costiera). Sorprendentemente, il comandante della nave ha acconsentito a cambiare la rotta (l'armatore che deve sapere sempre tutto era informato? E l'unità di crisi della Farnesina, che sa sempre tutto, lo sapeva?) e più tardi, incredibilmente, si è acconsentito anche a consegnare agli indiani i nostri due militari.
È legittima la consegna dei due italiani? Né legittima né opportuna. I militari si trovavano in alto mare dove vige la libertà di navigazione. Inoltre agivano per conto dello stato italiano e quindi godevano dell'immunità e non potevano essere arrestati da alcuno. La consegna dei due militari ha configurato un calamento di braghe indegno di un paese che si vanta di essere "il più piccolo dei grandi e il più grande dei piccoli", ma è perfettamente in linea con la politica di un paese che intende dare le case ai nomadi anziché ai connazionali. Qui sorge un inquietante sospetto, emerso su alcuni social network: gli indiani , per convincere la nave a cambiare rotta, hanno forse ricattato la compagnia facendo balenare ritorsioni economiche? In ogni caso le responsabilità dell'armatore e del comandante della nave non sono di poco conto e sono tutte da accertare.
Gli altri paesi lo avrebbero mai fatto? Mai. Né gli USA hanno mai consegnato a chicchessia il Capitano Richard Ashby che il 3 febbraio 1998, in circostanze molto meno misteriose, alla guida di un aereo EA 6B Prowler aveva tranciato il cavo della funivia del Cermis causando la morte di 20 persone, né il Marine Mario Luis Lozano che il 4 marzo 2005 uccise Nicola Calipari in periferia di Baghdad. Ma anche senza scomodare la superpotenza, notoriamente restìa a consegnare ad altri i propri militari, non risulta che un simile atto sia mai stato perpetrato nemmeno da Burundi, Trinidad e Tobago, Costarica, Togo o San Marino. E quand'anche un paese si permettesse di arrestare due componenti delle forze speciali britanniche, i militari inglesi andrebbero immediatamente a riprenderseli spianando la prigione con un carro armato, come è effettivamente accaduto cinque anni fa in Iraq, a Bassora.
Come se non bastasse, l'Italia è stata sconfitta anche sul fronte della comunicazione. Nessun ministro o vertice militare si è pronunciato sulla vicenda. Cose da "Ministro, salga a bordo, c***o!". Al contrario, è stato osservato un assordante silenzio, lasciando ai media e alle autorità indiane la gestione della comunicazione con conseguenze penose per la posizione italiana, assente dalle pagine dei giornali internazionali e presente di rado persino sui media italiani.
Cosa rischiano i due militari? Rischiano la pena di morte e anche per questo sorprende la faciloneria con cui sono stati consegnati agli indiani come se si trattasse di due oggetti di poco valore. E pensare che l'Italia si rifiuta di estradare il peggiore dei criminali se nel suo paese di origine vige la pena di morte. Eppure questo paese non ci pensa su due volte quando si tratta di consegnare ad un paese che prevede la pena capitale due fra i propri migliori servitori.
Cosa fanno gli altri paesi in caso di pirateria? Gli Stati Uniti hanno debellato la piaga della pirateria nel Mediterraneo facendo a pezzi i pirati nordafricani, la Cina affonda senza complimenti le imbarcazioni sospettate di pirateria, noi non siamo capaci di tutelare i militari cui chiediamo sicurezza.
Come andrà a finire? È verosimile che qualcuno "farà l'indiano" e che le cose verranno aggiustate "all'italiana" per non guastare i rapporti fra India e Italia, due paesi storicamente amici, di cui uno emergente e uno tramontante. Dopotutto, questo increscioso episodio cade casualmente fra la visita in Italia del ministro degli esteri indiano e la visita in India di quello italiano. E allora ci saranno le nostre scuse ufficiali, come se i due pescatori li avessimo ammazzati proprio noi, i due marò verranno rilasciati previo pagamento di chissà cosa e chissà quanto mentre i comunicati ufficiali giureranno il contrario e l'Italia, dopo i declassamenti di Standard & Poors e di Moody's, si autodeclasserà a ultimo dei paesucoli.
L'unica luce in questa vicenda squallida e in tutto questo buio è quella degli sguardi fieri di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.

di Giovanni Marizza da l'Occidentale

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IL CASO ENRICA LEXIE
Marò, scorta sottocosto
Crisi India-Italia: indennità da 230 euro per i militari.

I marò, gli uomini scelti del reggimento San Marco.

Sono giorni decisivi per le sorti del maresciallo Massiliamo Latorre e il sergente Salvatore Girone, i due marò italiani in stato di fermo a Kochi in India, accusati di aver ucciso due pescatori. L'Alta Corte del Kerala ha infatti deciso il 23 febbraio di rinviare a martedì prossimo la sentenza sul ricorso dell'Italia. E la Farnesina, con in prima linea il sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura, sta cercando un modo per riportarli a casa.
APPRENSIONE A BRINDISI. Intanto al quartier generale dei marò a Brindisi c'è grande apprensione per la sorte dei commilitoni. Bocche cucite tra ufficiali e sottuffficiali del reggimento San Marco della Marina, uno dei reparti d'élite delle nostre Forze armate composto da 1.276 unità. «Sono due professionisti», si limitano a ribadire i militari, che «non compirebbero mai azioni come quelle di cui vengono accusati».
Marò perseguibili ai sensi del Codice militare in tempo di guerra
Già, professionisti. Uomini che hanno ricevuto una formazione rigorosa prima di salire sui cargo. Dallo scorso ottobre, infatti, la Marina militare ha messo a disposizione dell'armamento mercantile italiano i Nuclei di protezione militare (Npm), ognuno dei quali composto da sei elementi provenienti dal reggimento San Marco.
Gli Npm vengono imbarcati secondo un rigido protocollo su alcune delle navi battenti bandiera italiana che incrociano le acque dell'Oceano Indiano, con il preciso compito di proteggere beni ed equipaggio dall'assalto dei pirati.
NESSUNA RESPONSABILITÀ PER L'ARMATORE. Questi uomini non rispondono né all'armatore né al comandante della nave, tanto è vero che, per farli salire a bordo l'armatore deve firmare un contratto che lo esonera da qualsiasi responsabilità assicurativa.
Sono sotto il comando del Cincnav (Comando in capo della squadra navale della Marina militare italiana), agiscono in forza di precise regole d'ingaggio e sono perseguibili solo ai sensi del Codice militare penale in tempo di guerra.
IN AZIONE NELLE TRATTE A RISCHIO. I militari salgono a bordo solo nei tratti considerati a rischio, più o meno da Dubai allo stretto di Malacca che un mercantile percorre in circa 10 giorni. Durante la giornata rispettano una turnazione (di otto ore circa), e solitamente lavorano in coppia.
NAVIGARE TRA SKIFF E HOW. Una delle operazioni più frequenti è quella di distinguere, durante la navigazione, i cosiddetti «how», i tipici pescherecci dell'Oceano Indiano, dagli «skiff», le piccole imbarcazioni veloci che vengono usate dai pirati somali per attaccare i mercantili. Spesso però sugli how si trovano armi che i pescatori portano con sè per difendersi, a loro volta, proprio dagli assalti dei pirati.
La busta paga arriva al massimo a 2.500 euro al mese
Quando i militari si imbattono in un'imbarcazione sospetta, in primo luogo devono mettersi in contatto con l'equipaggio, via radio o con segnali visivi e sonori, per indurre la barca a cambiare rotta.
SPARI DISSUASIVI. Se ciò non avviene, l'allerta aumenta e si ricorre ai cosiddetti «warning shot», cioè colpi d'arma da fuoco sparati in aria a scopo dissuasivo. Se l'imbarcazione ancora non risponde allora i marò sparano in acqua, sempre a distanza di sicurezza. Si passa ai colpi diretti sull'imbarcazione solo in casi estremi.
MANOVRE ANTI-ARREMBAGGIO. Allo stesso tempo, applicando le Best management practise (Bmp) cioè le regole scritte dall'Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sicurezza in mare (Imo), i militari possono poi sollecitare il comandante a manovrare la nave iniziando una sorta di zig-zag che rende difficile l'eventuale arrembaggio.
Il compito dei marò non è, dunque, dei più semplici. Eppure nonostante il compito sia rischioso il loro stipendio non è elevato. Siamo lontanissimi dalle cifre che un qualsiasi militare guadagna durante una missione Nato: in Kosovo o in Afghanistan, per esempio, un sottufficiale, in media percepisce somme che variano tra i 4 mila e le 5 mila euro al mese.
OCEANO E MEDITERRANEO STESSA INDENNITÀ. Per scortare mercantili e petroliere, i militari del San Marco ricevono uno stipendio di imbarco che è identico sia per le rotte nel Mediterraneo sia per quelle dell'Oceano Indiano. La cifra massima è di 230 euro a trasferta per un maresciallo (come Latorre), e di 130 euro circa per un sergente (come Girone). Complessivamente, tra salario e indennità, un sottufficiale anziano imbarcato si ritrova in busta paga tra i 2 mila e i 2.500 euro al mese.
LA SCORTA COSTA CIRCA 3 MILA EURO AL GIORNO. A versare lo stipendio è il ministero della Difesa a cui l'armatore aggiunge le indennità. Mediamente un team di sei uomini (come quello a bordo della Enrica Lexie) costa all'impresa armatrice - considerando tutte le spese - circa 3 mila euro al giorno, dunque 30 mila euro per un viaggio della durata di 10 giorni.
Più oneroso, invece, è il costo dei contractor, cioè vigilanti privati che o si affiancano ai nostri 'marine' o scortano autonomamente il cargo. Secondo i dati dell'Indipendent maritime security associates (Imsa), l'armatore versa all'agenzia che li recluta circa 5 mila dollari al giorno (3.700 euro circa), per un totale di circa 37 mila euro durante l'arco della missione.

di Mimmo Del Guercio da Lettera 43