Si spendono milioni per ostentare navi speciali e super caccia.
Mentre i pochi blindati hanno trenta anni.
Ecco il documento riservato sui costi della missione
di Gianluca Di Feo
E se fossimo partiti con il
piede sbagliato? E se nella fretta di arrivare primi con armi e
bagagli a Tiro avessimo dimenticato la lezione di Nassiriya? Perché
l'unico documento trapelato dal segreto che circonda la missione
libanese apre la strada a più di una perplessità sulla gestione
dell'operazione italiana. A partire dalla composizione del
contingente. Finora abbiamo fatto arrivare in zona solo una ventina di
blindati: i mezzi anfibi che hanno fatto da vedette nello show
televisivo dello sbarco e una manciata di cingolati Vcc. Nessuno di
questi veicoli è in grado di resistere ai razzi Rpg che pullulano
nelle riserve di Hezbollah, ma anche nelle armerie delle fazioni
libanesi minori.
Per il Vcc, poi, si tratta di un replay: in servizio da trenta anni,
sono esattamente gli stessi che sbarcarono a Beirut con la spedizione
del 1983. Non senza ironia, l'esercito li ha battezzati -Camillino-
perché ricordano un gelato in voga negli anni Settanta: biscotto
all'esterno, panna dentro. Adesso per renderli un po' più protetti, al
biscotto hanno incollato altre corazze, ma nessuno scommette sulla
capacità di fermare i missili di Hezbollah: a Mogadiscio i razzi dei
miliziani hanno dimostrato di bucarli senza problemi. E in 13 anni non
si sono ancora trovati i fondi per rimpiazzare i Vcc dalla prima
linea. Così mandiamo i soldati con i Camillino dal cuore di panna
nelle colline dove le divisioni corazzate più potenti del pianeta
hanno fallito. Diversa la linea dei francesi, che per prima cosa hanno
spedito in Libano tutto quello che avevano di più pesante, a partire
dai tredici carri armati Leclerc, mostri d'acciaio da 56 tonnellate.
Invece noi ci presentiamo a sud del Litani con una avanguardia molto
light, troppo leggera anche per una missione dalle intenzioni
pacifiche: ci sono quasi più ambulanze che blindati.
La relazione tecnica di bilancio redatta dallo Stato maggiore
evidenzia altri punti molto controversi. La questione centrale è
quella della componente navale. Nei primi due mesi di Libano l'Italia
spenderà 53 milioni di euro per la flotta e solo 30 per i militari
impegnati a terra. Perché se l'indicazione del ministro Arturo Parisi
era stata chiara (-boots not boats-, ossia -scarponi e non navi-), i
vertici delle Forze armate hanno mischiato le carte in modo che lo
schieramento privilegiasse la prova di forza della Marina. Anche
accettando che, con un eccesso di cautela, la prima ondata venisse
affidata alla parata della Garibaldi e delle altre tre mini-portaerei,
non si capisce perché le navi da sbarco debbano rimanere fino a
dicembre a largo di Tiro. L'unica spiegazione militare potrebbe essere
quella di garantire un rapido ritorno a bordo del contingente: ma
neanche i peggiori critici del governo ipotizzano uno scenario così
nero.
Trasportare il contingente con le navi da sbarco, in gergo Lpd, costa
un capitale: sono previsti circa 20 milioni di euro, tra spese vive e
le indennità per gli equipaggi. Infatti i marinai imbarcati ricevono
lo stesso straordinario dei marines impegnati a terra: 276 euro al
giorno.
L'alternativa? Fare come in tutte le altre operazioni dell'ultimo
decennio: noleggiare dei grandi traghetti dove caricare uomini e
mezzi. Nelle stesse ore dello sbarco sulla spiaggia di Tiro, nel porto
di Beirut è approdato uno di questi enormi mercantili con 81 veicoli
pesanti e tutti i materiali del genio, che poi hanno percorso gli 80
chilometri di strada fino all'accampamento italiano. Il costo? Per
ciascun viaggio 250 mila euro. Si stima che con dieci traghetti si
potrebbe trasferire l'intero contingente: 2 milioni e mezzo contro i
20 preventivati. È chiaro: lo show ne perde, ma il risultato è più
efficace ed economico.
Il bilancio stilato dai vertici militari segnala altre sorprese. Come
gli elicotteri Mangusta, le cannoniere volanti che hanno un grande
potere di dissuasione sui guerriglieri: in Libano ne porteremo
quattro. In questo caso, non si ripeterà l'errore iracheno, quando
questi velivoli vennero fatti intervenire solo dopo la morte di un
maresciallo. Ma si prevede di farli arrivare a Tiro smontati: solo per
scomporre, imballare e riassemblare questa squadriglia si spenderanno
3 milioni di euro. Domanda: non si poteva farli atterrare su una delle
quattro portaerei e poi farli ridecollare sulla costa dei Fenici? In
Somalia si fece così. E da allora si va ripetendo la necessità di
abilitare i piloti dell'Esercito a operare sulle navi. Invece, 13 anni
dopo ricompare il trasloco in scatola di montaggio, come i modellini
di una volta, al costo di 6 miliardi di lire.
A dire la verità, di elicotteri il contingente ne avrà pochini: a
dicembre saranno dieci in tutto. Quattro da combattimento, due da
trasporto pesante e quattro medi. E pensare che proprio gli elicotteri
dal 1978 a oggi hanno testimoniato la presenza italiana in Libano:
equipaggi che hanno conquistato la stima della popolazione e delle
fazioni in lotta. In compenso, adesso ci sono i potenti
cacciabombardieri Harrier dell'aviazione di Marina. Mezzi temibili, ma
che nessuno pensa sorvoleranno la terraferma: la risoluzione Onu non
ne parla e gli spazi aerei ristrettissimi al confine tra Israele e
Siria non si prestano alle acrobazie dei nostri marinai-piloti,
considerati tra i migliori al mondo. La spesa? Fino a ottobre
1.656.000 euro.
Infine le mine. Kofi Annan in persona ha denunciato il rischio in cui
vive tutta la regione: tra le trappole esplosive nascoste dagli
Hezbollah e le granate delle cluster bombs israeliane ci sono 100 mila
ordigni in giro. Ma nei primi due mesi i nostri soldati hanno a
disposizione 300 mila euro per ripulire la zona dalla minaccia. Poco
più della stessa somma che è stata stanziata per il vitto e l'alloggio
dei 20 uomini che seguiranno il generale Fabrizio Castagnetti al
Palazzo di Vetro: 240 mila euro per garantire una degna rappresentanza
tricolore nella catena di comando a New York. Mentre le risorse per
rendere sicure campi e strade sono addirittura pari alla carissima
bolletta del satellite, altri 300 mila euro di comunicazioni.
La guerra alle mine, una delle necessità più urgenti per la
popolazione, da novembre in poi riceverà un altro mezzo milione di
euro. Senza che però i nostri genieri dispongano di mezzi moderni:
siamo l'unica forza europea priva di apparati corazzati o teleguidati
per questo compito. Ma la radice della questione è sempre la stessa:
dal 1996 le missioni si sono accavallate una dietro l'altra, logorando
gli arsenali senza mai trovare finanziamenti per ridare fiato alle
dotazioni. Persino i programmi più importanti per garantire la
sicurezza dei militari all'estero vengono rinviati in continuazione.
L'ultimo capitolo riguarda le jeep a prova di mina: prodotte in
Italia, sono state adottate da Londra, Oslo, Bruxelles e Berlino.
Persino gli americani le stanno esaminando, per studiare sostituti
alle loro Hummer. E Roma? I fondi sono centellinati, goccia dopo
goccia: le jeep dovevano entrare in servizio nel 2004, invece finora
ne sono state acquistate pochissime che servono per i test nei
poligoni. Non sarebbe meglio risparmiare su altro e porre la sicurezza
al primo posto? Il bilancio libanese è pieno di voci così criptiche da
sfuggire persino all'interpretazione degli esperti: ci sono 800 mila
euro per -assetti Cis-, l'ultimo nato degli acronimi bellici che forse
indica -Command information system-, ossia un sistema informatico
satellitare per le operazioni multinazionali. Un bel gadget
tecnologico, del quale forse si potrebbe fare a meno. Mentre sul
-Camillino- rischiano la vita ragazzi nati dieci anno dopo l'entrata
in servizio del blindato -con il cuore di panna-.