Il Presidente della Repubblica e lo scioglimento delle Assemblee parlamentari nell’emergenza costituzionale Stampa
L'emergenza costituzionale che da venti anni sottopone le istituzioni della nostra Repubblica ad uno stress senza precedenti nella storia costituzionale contemporanea[1] sta focalizzando lo scioglimento anticipato delle Assemblee parlamentari come misura, se non risolutiva, almeno iniziale per avviare a soluzione la crisi profonda che sta per travolgere, con gli assetti costituzionali, la vita associata in Italia[2]. Che quello dello scioglimento sia un istituto centrale dello stato rappresentativo che abbia scelto come sua propria la forma parlamentare di governo è del tutto evidente. È più che noto in dottrina che diverse sono le finalità dello scioglimento e diversi sono i criteri che presiedono all'attribuzione del relativo potere e diversi ancora i modi del suo sostanziale esercizio.[3] La sua configurazione in un ordinamento specifico ne segna la forma specifica della democrazia che vi si realizza. Negli ordinamenti di società politicamente omogenee, con Costituzioni indiscusse, specie se rette da monarchie, il potere sostanziale di scioglimento è attribuito sicuramente al governo e, per esso, a chi lo presiede, senza però la scomparsa definitiva della presenza del Capo dello stato dalla procedura che integra l'effetto della conclusione della Legislatura. Diversa è invece è la disciplina prevalente negli ordinamenti repubblicani a democrazia parlamentare[4].

Sul tema dello scioglimento, undici anni fa scrivevo [5]: "La questione della spettanza sostanziale del potere di scioglimento in regime repubblicano è stata posta in Italia dalla dottrina immediatamente dopo l'entrata in vigore della Costituzione. Le prime deduzioni ricavate dalla lettura degli articoli 88, 89 e 90 furono che la disciplina costituzionale dello scioglimento delle Camere del Parlamento accomunasse questo atto a tutti gli atti che, pur risultando intestati al Presidente della Repubblica, dovendo però essere controfirmati, venivano per ciò solo attratti nella sfera della potestà del governo. Si ritenne quindi che la disciplina costituzionale collocava lo scioglimento delle assemblee parlamentari nel quadro degli atti sostanzialmente governativi. Ma immediatamente dopo emersero riflessioni più meditate ed anche più penetranti nel significato del sistema normativo che disciplina le relazioni tra gli organi costituzionali supremi.
La dottrina fece leva sulla posizione che le norme costituzionali assegnano al Presidente, quella di organo di garanzia delle parti del sistema, di custode della legalità costituzionale, di estraneità all'indirizzo politico di maggioranza e dedusse che proprio in questa posizione costituzionale risiedevano le ragioni dell'attribuzione del potere di scioglimento al Presidente. Colse, agevolmente a questo punto, nella formula normativa interpretata nella sua interezza, l'importanza della previsione del parere obbligatorio dei Presidenti delle due Camere ai fini dell'attrazione del potere di scioglimento nell'ambito della disponibilità presidenziale. La centralità dell'istituto dello scioglimento nel complesso degli strumenti volti ad assicurare la funzionalità, cioè la corretta dinamica del sistema e lo sbocco da dare alle crisi tra le parti politiche, tra Parlamento e Governo, tra rappresentanti e rappresentati e del ruolo classico che una repubblica parlamentare affida al Presidente, di risoluzione dei blocchi di funzionamento e di svolgimento del sistema, convinse la maggioranza della dottrina ad optare per l'interpretazione in senso sostanzialmente presidenziale del potere di scioglimento[6]. Restava, ovviamente, da definire il ruolo che spettava alla controfirma nella composizione dell'atto di scioglimento e questo ruolo veniva riconosciuto non come partecipazione al merito dell'atto presidenziale, ma come riconoscimento della costituzionalità dell'atto, cioè come strumento volto ad impedire un esercizio arbitrario del potere di scioglimento (...) che poteva quindi configurarsi come atto complesso a partecipazione diseguale, tale da assicurare, cioè, una prevalenza decisionale del Presidente della Repubblica rispetto al contributo del governo che sarebbe di sola attestazione della costituzionalità dell'atto, costituzionalità quindi condivisa dal governo e rilevante ai fini della assunzione governativa della responsabilità dell'atto per la parte che non dovrebbe attenere al merito della decisione.". Concludevo rilevando che il sistema si era poi evoluto e lo scioglimento "configurandosi come motivabile solo sulla base oggettiva dell'esigenza di funzionalità del sistema, come possibile soltanto se risultante non funzionale agli interessi di parti del sistema, come sostanzialmente deciso dal Presidente della Repubblica, condiviso quanto a costituzionalità dal governo, non contrastato nel merito da nessuna delle forze politiche, anzi gradito alla stragrande maggioranza delle forze politiche ed addirittura da esse richiesto, si è andato affermando via via nella prassi come «autoscioglimento»". Notavo, infine, che lo scioglimento delle Assemblee si era così caratterizzato dal 1972 al 1987 e si era confermato come tale anche dopo i sommovimenti politici ed istituzionali dei primi anni '90 [7].

Nell'ultimo decennio la crisi istituzionale si è addirittura aggravata. La sublime decisione del corpo elettorale del 25-26 giugno 2006 di respingere il rovesciamento della forma di governo da parlamentare in monocratica (il premierato assoluto) predisposta con la legge costituzionale 18 novembre 2005 dalla maggioranza parlamentare di centro-destra non è bastata a sconfiggere il revisionismo eversivo che col, e nel nome del riformismo istituzionale, da trenta e più anni si è abbattuto sulla democrazia italiana. Lo stravolgimento delle relazioni, delle funzioni, dei compiti, dei principi dell'ordinamento costituzionale è al massimo. Determina e fomenta la conflittualità permanente tra governo e maggioranza parlamentare da una parte, se di centro destra, e gli organi costituzionali di garanzia della legalità costituzionale ed ordinaria, dall'altra. Le istituzioni che qualificano lo stato come rappresentativo e di diritto sono svuotate della loro essenza. La loro ragion d'essere è stata sradicata. Il loro ruolo è rovesciato. Un principio fondante dello stato moderno, quello dell'eguaglianza di fronte alla legge, è eluso, rinnegato, vilipeso nell'interesse di una persona sola, quella del Presidente del Consiglio.
È nell'interesse perverso del solo Presidente del Consiglio che si acquisiscono alla maggioranza deputati e senatori di opposizione con promesse e compensi di incarichi di governo (e non solo) dopo aver teorizzato il vincolo politico di mandato come preclusivo di governo e di maggioranze diverse da quelle immediatamente derivanti dai risultati elettorali. Quali conseguenze ne trae il prestigio delle istituzioni parlamentari presso l'opinione pubblica è facile immaginare.
È per soddisfare l'interesse personale del Presidente del Consiglio che l'uso illegale del potere legale abbia assunto carattere permanente: il numero a due cifre delle leggi ad personam rivela il grado di enormità dell'illegalità che si prova a ... legalizzare trovando, per fortuna, ancora un rimedio nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Anche a questo proposito quale rispetto l'atto legge può ricavare se rivela che può essere stato usato a questo miserabile fine non è difficile comprendere.
È sempre e solo il suo interesse privato quel che muove il Presidente del Consiglio nel delegittimare quotidianamente la Magistratura italiana, "colpevole" a suo giudizio di perseguire i reati che gli imputa. Rifiutandosi però di difendersi nei giudizi conseguenti e reagendo con invettive sui complotti, la persecuzione e quanto altro può inventarsi, si smaschera. Confessa implicitamente la sua colpevolezza. Enorme, di fronte all'opinione pubblica mondiale, è il danno che reca al Paese per essere il primo presidente del consiglio della storia ad aver acquisito la carica per sottrarsi alla legge penale.
È inoltre il solo, tra tutti i cittadini e tutte le cittadine della Repubblica, come titolare della carica di Presidente del Consiglio a disporre della direzione di due emittenti televisive del servizio pubblico nazionale su tre, le aggiunge a tre altre emittenti nazionali di sua proprietà e le affianca poi ad almeno tre testate giornalistiche. Disporre di tali mezzi di informazione equivale a detenere un apparato enorme di influenza, di condizionamento, di formazione dell'opinione pubblica, quindi della pre-condizione della democrazia.
La posizione del Presidente del Consiglio in Italia è quindi tale da non avere né precedenti né termini di comparazione nei Paesi a democrazia credibile. Ma alle anomalie indicate se ne aggiungono altre non meno, ma più gravi ancora.

Si rapporti la figura attuale del Presidente del Consiglio ai principi di regime di uno stato moderno. La deduzione è immediata, univoca, di squalifica irrimediabile. Lo è sia dal punto di vista del costituzionalismo sia quanto al rapporto ipotizzabile con qualsiasi concezione onesta della democrazia. All'essenza del costituzionalismo come limite al potere e come controllo del suo esercizio la configurazione attuale della carica di Presidente del Consiglio si oppone sia per l'alto tasso di incremento del potere che ne risulta per il titolare dell'organo, sia perché si tratta di un potere svincolato da condizionamenti reali. Della democrazia poi addirittura vanifica il carattere che la identifica, quello della rappresentanza della sua sede istituzionale.
È infatti la legge elettorale per la composizione delle due Camere del Parlamento che inficia con l'introvabile rappresentanza del Parlamento l'insieme delle relazioni tra gli organi politici supremi.
Inficia il Parlamento quanto a derivazione dal corpo elettorale. Derivazione falsificata tre volte. Una prima volta sottraendo agli elettori la scelta degli eletti perché ad individuarli ha provveduto chi ha disposto la collocazione in lista dei candidati, cioè un "capo" di "forza politica"[8], uno dei cinque o sei cittadini cui il sistema elettorale conferisce la scelta dei membri del Parlamento, come si constaterà in prosieguo.
Falsata una seconda volta attraverso il c.d. "premio di maggioranza" un marchingegno per il quale, qualora nessuna lista o coalizione di liste ottenga almeno 340 seggi alla Camera dei deputati (o il 55 per cento dei seggi assegnati alla Regione per l'elezione del Senato della Repubblica [9]), si provvede ad attribuire tanti seggi alla Camera e tanti, in ciascuna circoscrizione, per il Senato, quanti necessari a raggiungere i 340 alla Camera e il 55 per cento di quelli assegnati a ciascuna circoscrizione del Senato alla lista o coalizione di liste che abbia ottenuto un voto in più delle altre. Si noti che la formazione elettorale, destinataria del premio, potrebbe aver ottenuto anche un quorum minimo, come il quaranta o il trenta per cento dei voti complessivamente espressi e ancora meno. Meno, comunque, della somma dei voti ottenuti da tutte le altre liste o coalizioni di liste. Il premio infatti non è attribuito perché una forza politica singola o coalizzata, pur avendo ottenuto la maggioranza dei voti espressi nella competizione elettorale, non dispone dei seggi necessari per comporre la forza parlamentare sufficiente a governare. Sarà conferito ad una minoranza, un po' ... meno minoranza delle altre, che resta irrimediabilmente tale nell'elettorato e, tanto più, nel Paese. Non si tratta quindi di un premio ad una maggioranza, ma per una delle minoranze.
Il premio si risolve perciò nella trasformazione di una minoranza in maggioranza. Una entità identificabile in un numero si trasmuta in un'altra, quella opposta. Il numero reale, accertato che la identificava sfuma, si dissolve. Per operare questa trasformazione c'è solo un modo, è quello di commettere un falso. Lo si sceglie decidendo, con assoluto cinismo, che a compierlo sia un organo dell'istituzione di vertice cui è demandata la definizione della verità giudiziaria. È infatti all'Ufficio elettorale centrale presso la Corte di Cassazione che si impone di attribuire un premio alla lista (o alla coalizione di liste) che ha ottenuto un seggio in più rispetto a ciascuna delle altre, inferiore però a 340, integrando il numero dei seggi meritati fino a raggiungere la suddetta consistenza di seggi, previo accertamento di un risultato che non si è determinato, di un fatto non accaduto. Appunto perché non accaduto si opera come se fosse, determinando gli effetti che ne sarebbero derivati. Imporre per legge la commissione di un falso in atto pubblico se legalizza il falso non trasforma però il falso in vero. E, di sicuro, non ridonda a favore della "maestà" della legge.
La terza falsificazione nella derivazione dei componenti delle due Camere dal corpo elettorale è meno vistosa ma non è meno significativa. Il costo in termini di voto di ciascun seggio varia a seconda che si tratti, alla Camera dei deputati, dei 340 seggi assegnati alla minoranza premiata o dei 290 delle altre minoranze e per il Senato del 55 per cento dei seggi di ciascuna circoscrizione. Una violazione clamorosa dell'art. 51 della Costituzione che riconosce il diritto dei cittadini di accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza. Si aggiunge questa violazione alle altre e contribuisce a rendere il sistema elettorale vigente in Italia un unicum. Ammucchia infatti elementi del sistema elettorale maggioritario (sarebbe, a rigore, il simple constituency majority detto anche first past the post) ed elementi del sistema proporzionale. Ma contorcendoli e amputandoli. Espunge dai due sistemi gli effetti virtuosi di ciascuno di essi. Dal maggioritario - che è di solito basato su collegi uninominali - la scelta diretta dell'eletto da parte dell'elettore. Dal proporzionale l'eguale peso del voto e la massima rappresentatività in Parlamento del pluralismo sociale e politico. Come esempio di perversione la legge elettorale vigente in Italia per i due rami del Parlamento tocca il vertice.

Lo tocca anche come degenerazione del presupposto che dovrebbe ispirarla. Introduce infatti al citato art. 14-bis della legge che modificò nel 2005 il T. U. delle norme sull'elezione della Camera dei deputati, due esplosivi fattori manipolativi. Prevede infatti l'indicazione del "capo" della forza politica cui si riferisce la lista o la coalizione di liste e, come se non bastasse, l'inclusione di tal nome nel simbolo della lista o della coalizione di liste. Che possa esserci un "capo" di una formazione politica che poi si costituirà in gruppo parlamentare è intanto una netta, fragorosa, plateale violazione di ciascuna delle norme costituzionali contenute, a dir poco, nei 17 articoli della Costituzione. Quelli della Prima Sezione del Titolo I della Seconda Parte della Costituzione, il Titolo, cioè, che configura il Parlamento. Sono tutte norme che riflettono, confermano, rinnovano, ribadiscono l'augusto e indefettibile principio dell'eguaglianza di ciascuno dei membri del Parlamento come tale, come e perché rappresentante della Nazione.
È inquietante quel disposto dell'art. 14-bis nell'istituire i "capi". Si badi. Non si tratta di capi simbolici di entità astratte, permanenti, trascendenti, come può essere uno stato, una chiesa, una scuola pittorica o dottrinale o banda musicale. Istituire "capi" di forze politiche sottende che in democrazia possano esserci dei "capi", li evoca, li richiede, li impone, li istituzionalizza. È inquietante perché è l'indice di una cultura, di una visione politica ed istituzionale abissalmente distante da un'idea anche minimale, anche approssimativa della democrazia. Cosa preannuncia l'istituzione dei "capi" voluta da tale articolo? Che i deputati e i senatori rappresentanti della Nazione non lo saranno più? Il problema è di fondo: nella concezione politica che esprime, che rivela, quale democrazia sarebbe riconoscibile?

Quel che è certo è che rivela una visione non parlamentare della democrazia e la rivela a Costituzione invariata. Quel disposto dell'art. 14-bis congiunge i "capi" ai "partiti o gruppi politici organizzati che si candidano a governare". L'espressione è univoca. Si arroga a definire l'elezione non come volta a formare la rappresentanza politica in Parlamento ma "a governare". La rappresentanza è soffocata, rimossa, recede fino a scomparire. Oggetto e contenuto dell'elezione è la scelta del "capo della forza politica o della coalizione" che dovrà governare. C'è anche qualcosa che potrebbe apparire come un succedaneo contorto e distorto di quello che si poneva come accordo tra Palamento e Governo che si chiamava indirizzo politico. È il programma che ciascuna lista o coalizione di liste presenta insieme col nome del suo "unico capo" all'atto del deposito del contrassegno. Tale programma dovrebbe indicare e vincolare l'indirizzo politico del governo e del suo "capo", salva sempre l'interpretazione o l'integrazione o la revisione o anche il rovesciamento che di tale programma potrebbe fornire chi da "unico capo" sia divenuto premier. C'è infine una ipocrita e beffarda citazione delle "prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall'articolo 92, secondo comma, della Costituzione". Come se l'esito obbligato di ogni consultazione elettorale quanto a formazione della maggioranza parlamentare e ad indicazione del suo "capo" non vincolasse il Presidente della Repubblica a nominare Presidente del Consiglio tale "capo". Come se la legge elettorale non si ponesse in palese contraddizione con quanto disposto in Costituzione quanto a forma di governo e non creasse gravissimi conflitti nel caso di rottura della maggioranza emersa dalle elezioni.
La verità è che la legge elettorale 21 dicembre 2005 si pose e si pone in palese ed irrimediabile conflitto con la Costituzione. Non meritava di essere promulgata. Lo fu senza neanche un rinvio alle Camere. Non si comprende se per insipienza, per acquiescenza o per adesione ai suoi fini.

Le conseguenze di tale legge elettorale hanno sconvolto l'intero ordinamento. L'interprete non può ignorare il vulnus che la legislazione elettorale ha inferto sulle relazioni interorganiche nel vertice della Repubblica. Asserirebbe il falso. Descriverebbe un ordinamento storicamente esistito ma non dotato più di una effettività credibile. Si potrebbe trattare, al massimo, di effettività affievolita, sospesa, come nella triste congiuntura che stiamo vivendo. Anche i normativisti, più o meno puri, hanno appreso dal massimo teorico della loro dottrina che se "il diritto come ordinamento è un sistema di norme giuridiche"[10] è anche "ordinamento (od organizzazione) della forza"[11]. Forza che può venir meno, esaurendo, con l'efficacia delle singole norme, l'effettività complessiva dell'ordinamento. Quando fenomeni di tale natura accadono, nella misura e nelle forme più o meno definitive in cui accadono, obbligano l'interprete a prenderne atto.

Se la prima vittima del sistema elettorale è stata nientemeno che la rappresentanza politica, la sua ragion d'essere, la democrazia rappresentativa, come motivato nelle righe che precedono, la seconda e conseguente vittima è da ritenere che sia il Parlamento in quanto tale e nel suo rapporto col governo. La composizione delle due Camere è inficiata dal modo come risultano configurabili i componenti di ciascuna di esse. Solo un'acrobatica combinazione di molto precarie contorsioni retoriche può attribuire ai membri attuali del Parlamento una qualche presunzione di rappresentatività. Lo stesso Presidente del Consiglio, che pur sostiene oggi l'intangibilità di tale legge elettorale vigente, ebbe e denominarli "figuranti". A conferire la carica di deputato o di senatore ai parlamentari del suo partito politico, come si notava all'inizio, è stato lui stesso collocandoli in lista in modo da rendere certa la loro proclamazione a deputati o a senatori. Il plus-potere che ne deriva al Premier non è comparabile con quello esercitato dai leaders dei partiti la cui influenza sulla scelta dei candidati al Parlamento è indubitabile in ogni sistema rappresentativo (collegi cosiddetti "sicuri", collocazione preminente in lista). Indubitabile sì, ma in quanto leaders di partiti, pertanto collegato a tale posizione e a tale ruolo e, soprattutto, potere partecipato dalle strutture dei partiti, da quelle immediatamente espressive della membership, da quelle intermedie e da quelle, mai solitarie, della leadership. Non è comparabile perché si tratta, negli altri ordinamenti, di partiti strutturati, veri. Non lo sono, invece, quelli che compongono attualmente il sistema partitico italiano, definibili infatti solo come leggeri, mediatici, liquidi, personali[12]. Come tali in condizioni da non potere garantire alcunché ai parlamentari quanto ad autonomia e quanto alle capacità, anche minime, di espressione, di manifestazione, di rappresentazione delle domande sociali.
A questo proposito va rilevata un'ulteriore distorsione che realizza la legge elettorale mediante l'istituzione dei "capi". Il ruolo che ad essi viene affidato aggira, by-passa l'ascendenza del potere mediante i singoli eletti e l'intera composizione dei due rami del Parlamento dalla base sociale al vertice della Repubblica, e specificamente all'istituzione che mediante la rappresentanza dovrebbe essere predisposta a recepirlo, adempiendo così al compito di inverare quel poco o tanto di democrazia finora realizzata. La loro presenza nel simbolo della scheda elettorale cattura il potere del corpo elettorale, lo trattiene perché possa essere esercitato sui membri del Parlamento di pertinenza della propria forza politica quanto ad esercizio delle funzioni parlamentari. Le conseguenze sono del tutto evidenti. Quanto alla configurazione dei parlamentari, la definizione di "figuranti" data loro dal Presidente del Consiglio in carica starebbe a significare quindi che essi rappresenterebbero sì, ma i loro "capi", veri detentori del potere carpito al corpo elettorale. Potere che detti "capi" eserciterebbero - ed infatti esercitano - usando i singoli parlamentari in ordine a tutte le funzioni parlamentari, da quella legislativa a quella che, secondo la lettera e lo spirito della Costituzione prima delle contraffazioni operate da venti anni a questa parte, veniva definita come di indirizzo politico.

Si è giunti così alla questione della forma di governo effettivamente vigente in Italia. Si consideri allora che tra i "capi" delle forze politiche che "si candidano a governare", come si esprime il più volte citato art. 14-bis della Legge 21 dicembre 2005, n. 270, è da annoverarsi quel "capo" che per esserlo della lista (o della coalizione delle liste) che ha conseguito in uno dei modi previsti dalla legge suddetta la maggioranza dei seggi alla Camera e al Senato, viene nominato dal Presidente della Repubblica, appena gli sarà possibile, Presidente del Consiglio. Entro dieci giorni a far data da quello della nomina, in base a quanto prescrive il non ancora abrogato art. 94 della Costituzione, il Presidente del Consiglio, pur se nominato come impongono gli articoli succitati della legge elettorale, si deve presentare alle Camere per ottenerne la fiducia. Ma proprio alla stregua di quanto sarà risultato dall'applicazione della legge elettorale dovrà ottenerla e la otterrà. Si compie così la "democrazia immediata" di duvergeriana invenzione.
Una domanda però emerge spontanea, a questo punto. Questa: da chi mai realmente, specificamente ottiene la fiducia il Presidente del Consiglio ? La risposta non può essere altra che questa: dai suoi figuranti, esattamente dai figuranti del suo potere. Chi rappresentano i componenti della Camera e del Senato che votano la fiducia al Presidente del Consiglio? Rappresentano quel "capo" che li ha inseriti nella lista dei candidati e nella collocazione esattamente corrispondente a quella che ne garantiva la proclamazione a membro del Parlamento. Il "capo" è diventato "premier". Risponderanno al "capo". Il "capo" si è provveduto di coloro cui deve rispondere nominandoli. La responsabilità politica si estingue. Il rovesciamento del rapporto di fiducia nel suo esatto opposto è perfettamente riuscito.

Il conferimento della fiducia al governo è diventato così una autentica farsa. In una celebre ricostruzione di un famoso rovesciamento della forma di stato e di governo fu osservato[13] che Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia aveva notato che "tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte" ma aveva "dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa". Chiosando, si può aggiungere che ci sono anche farse tragiche e sono quelle che producono effetti catastrofici ma a recitarle nella storia dei popoli non sono però "i grandi personaggi" sono degli esseri abietti.

La trasformazione in farsa della acquisizione della fiducia da parte del "capo" della forza politica proclamata maggioranza e del prosieguo dell'asservimento più o meno docile della maggioranza parlamentare al Presidente del Consiglio, non può non coinvolgere gli istituti corollari del rapporto di fiducia. Primo tra questi quello della controfirma. Dall'apposizione di timbri e sigilli ai decreti, ordinanze, rescritti intestati al monarca all'assunzione della responsabilità del Governo per l'atto del capo dello stato fino alla configurazione di atto complesso a partecipazione comunque diseguale del Capo dello stato e del Ministro o del Presidente del Consiglio, l'evoluzione dell'istituto ha segnato l'attrazione dell'atto nella sfera della rappresentanza politica. Salvo che non si trattasse di atti di competenza propria o comunque prevalente del Presidente della Repubblica, posti in essere in ragione del ruolo "non di parte" del Presidente e quindi da sottrarre alla prevalenza del potere di governo. Il riferimento ovviamente è allo scioglimento, al rinvio delle leggi, alla promulgazione, alla convocazione straordinaria delle Camere, all'accettazione delle dimissioni del Governo e/o dei singoli ministri, alla nomina di cinque giudici costituzionali, di senatori a vita, ai messaggi. La distinzione tra atti proposti dal Presidente del Consiglio o da un Ministro e atti di competenza propria del Presidente della Repubblica, la configurazione della controfirma come istituto polifunzionale rispondeva perfettamente alla lettera ed alla logica della Costituzione. Attribuiva alla controfirma una funzione duplice, alternativa. Quella di assicurare al Governo la determinazione del contenuto dell'atto se rientrava tra quelli che il riparto delle attribuzioni tra gli organi supremi dello stato riserva al governo ed ai quali il Presidente offre la copertura della loro legalità consentendo che gli si intestassero come propri. Rovesciando i due ruoli, quello di decidente e quello di garante, la controfirma assicurava al Presidente della Repubblica quello di decidere gli atti di competenza propria ai quali il Presidente del Consiglio avrebbe offerto l'attestazione della legalità costituzionale[14].
Esprimersi ora nel senso che possa essere un Presidente del Consiglio come risulta configurabile attualmente, il garante della legalità costituzionale desterebbe francamente una ilarità incontenibile anche nel più costernato osservatore della realtà istituzionale italiana.

Appunto perciò la questione della controfirma al decreto di scioglimento delle Assemblee parlamentari che dovesse essere deciso dal Presidente della Repubblica va valutata previa adeguata riflessione sulla congiuntura storica nella quale avverrebbe. Non, di certo, per ipotizzare un decreto di scioglimento privo di controfirma, decreto che sarebbe del tutto inconcepibile stante l'univoca formulazione dell'art. 89 della Costituzione e l'irrevocabile esito dello sviluppo finora raggiunto dal costituzionalismo realizzato nelle normative, nelle convenzioni e nelle prassi delle forme parlamentati di governo. Ma per obbedire al principio di precauzione che consiglia di prevedere rimedi per il caso di un non inimmaginabile rifiuto di controfirma da parte di un Presidente del Consiglio che, alla stregua delle mutazioni intervenute nei rapporti tra gli organi supremi della Repubblica, a seguito della legge elettorale vigente, ritenesse che il potere di scioglimento sia stato ridistribuito tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio in modo da attrarne l'esercizio nell'area governativa o quanto meno da ridefinirlo come "duumvirale".
La intollerabilità giuridica, istituzionale, politica e - da aggiungere - morale delle conseguenze di una interpretazione di tal tipo delle norme costituzionali e pur di quelle della legge elettorale, certamente inquinate da incostituzionalità ma silenti da espliciti o impliciti riferimenti all'esercizio del potere di scioglimento, è incontestabile. Così come incontestabile è la posizione nell'ordinamento del Presidente della Repubblica, capo dello stato, rappresentante dell'unità nazionale, organo super partes, che "ha la cura della costituzione, sorveglia che la Costituzione funzioni senza intoppi e ove qualche intralcio dovesse sorgere è a lui che spetta mettere in moto la macchina". Definizione questa quanto mai esatta, netta chiara,[15] confermata dalla storia costituzionale della Repubblica.[16]

La conclusione non può essere dubbia. Lo scioglimento delle Camere del Parlamento spetta al Presidente della Repubblica come potere proprio. Il rifiuto eventuale della controfirma determinerebbe l'emersione di un conflitto "di attribuzione in negativo - o da menomazione -" cioè una delle "ipotesi in cui un ostacolo ad un esercizio di una competenza costituzionale insorga a causa di una omissione, del rifiuto da parte di un altro soggetto di esercitare una competenza propria"[17]. A risolverlo sarebbe quindi la Corte costituzionale ed in via definitiva valutando non soltanto l'estensione, l'intensità, la conformazione del potere di scioglimento conferito al Presidente della Repubblica ma, considerando ogni aspetto del caso, anche quindi i presupposti e i profili specifici dell'atto come concretamente configuratosi. Ricondotto nel suo proprio alveo, quello tracciato dalla Costituzione, il conflitto insorto quanto alla spettanza del potere sostanziale di scioglimento, qualora il suo esercizio non esorbitasse, verrebbe risolto in conformità a Costituzione. La controfirma risulterebbe imposta al Presidente del Consiglio con sentenza della Corte. Con lo scioglimento e le elezioni conseguenti si potrebbero anche creare le condizioni per avviare a soluzione la crisi profonda ed endemica che attanaglia le istituzioni della Repubblica assicurando e garantendo l'efficacia della volontà popolare espressa col referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006.

di Gianni Ferrara da Costituzionalismo.it

[1] Si tratta infatti di una "crisi di sistema" su cui v. ora l'esaurente trattazione di G. U. Rescigno, Il Presidente della Repubblica e le crisi del sistema. Relazione al Convegno Luiss, dic. 2010, §§ 21-25, in corso di pubblicazione

[2] Il problema è stato correttamente posto da L. Carlassare, su Il fatto quotidiano dell'11 febbraio scorso anche a seguito di quanto aveva scritto su la Repubblica, E. Scalfari il 6 febbraio.

[3] Rinvio, com'è ovvio e d'obbligo, alla classica ed insuperata trattazione del tema di G. Guarino, Lo scioglimento delle Assemblee parlamentari, Napoli, 1948.

[4] Per come lo scioglimento fu disegnato dal Costituente e per come si caratterizzò nei primi quarant'anni dell'età repubblicana rinvio all'ampia e rigorosa ricostruzione di L. Carlassare, art. 88, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca) Bologna, 1983.

[5] cfr. G. Ferrara, Gli atti costituzionali, Torino, 2000, 202 e ss.

[6] Era intanto intervenuto lo scioglimento del Senato della Repubblica nel 1953, scioglimento che, contrariamente alle dichiarazioni dell'allora Presidente del Consiglio riferite dalla stampa, fu ricostruito esattamente come presidenziale dalla dottrina cfr. G. Guarino, Lo scioglimento anticipato del Senato, Foro italiano, 1953, IV, 89-102 ora in Id., Dalla Costituzione all'Unione Europea, Napoli, 1994, II, 43 e ss. spec. 61.

[7] Cfr. G. Ferrara, ibidem, 204.

[8] A definirlo così è l'art. 14-bis della legge elettorale vigente, il D. P. R. 30 marzo 1957 n. 361, come modificato dalla legge 21 dicembre 2005, n . 270 "Modifiche alle norme per l'lezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, detta porcellum) .

[9] Cfr. l'art. 16 del D. Lgs. 20 dicembre 1993, n. 533 Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione del Senato della Repubblica come modificato dalla legge 21 dicembre 2005 sovra citata.

[10] Cfr. H. Kelsen, Reine Rechtslehre (1934) tr. it. di R.Treves, ID. La dottrina pura del diritto, Torino,1963, 71.

[11] Op.cit., 78.

[12] Ad individuarli come "personali" fu M. Calise, Il partito personale, Bari, 2000. Ma sulle conseguenze catastrofiche della crisi dei partiti, cfr. ora O. Massari, La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a problema della democrazia, nell'eccellente numero di Democrazia e Diritto, 3-4 2009 ma 2010 titolato Il Partito politico oggi, 23 e ss., e M. Prospero, Elogio della mediazione, ivi, 385 e ss.

[13] Da Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, ora in Marx-Engels, Opere scelte, Roma, 1966, 485 e ss., 487.

[14] Per una più diffusa trattazione rinvio a G. Ferrara, Gli atti, cit. 212 e ss.

[15] A scriverla fu G. Guarino, Il Presidente della Repubblica italiana, in Riv. tr. dir. pubbl. 1951, 903 e ss. nella prima ricostruzione dell'organo da parte della dottrina.

[16] La riconferma, sessant'anni dopo, A. Baldassarre, Il Presidente della Repubblica nell'evoluzione della forma di governo, in www.Associazionedeicostituzionalisti 21.10.2010 nell'ottima rivisitazione della figura del P d. R. che si segnala anche per le fondate critiche che muove alle dottrine corrive al revisionismo divelto dai principi costituzionali. Sulla posizione super partes del P. d. R. v. ancora più di recente G. Azzariti, Appunti per le lezioni, Torino, 2011, 89 e ss.

[17] Questa esatta definizione della fattispecie è di F. Bilancia, Corso di diritto costituzionale, Padova, 2008, 396.

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Contro l'art. 41, Costituzione stravolta

Il governo è in agonia, ma continua a rivoltarsi scompostamente. Fuori tempo massimo tenta di ritrovare nuova energia nell'ideologia neoliberista che era all'origine dei suoi successi "giovanili". Era questa la grande promessa che avrebbe permesso al berlusconismo di imporsi non solo sul piano dell'immaginario collettivo e del (mal)costume, ma anche sul piano più elevato della storia e delle visioni del mondo. L'ambizione più grande del centro-destra italiano dagli anni '90 è stata quella di provare ad abbandonare il sistema sociale definito dalla costituzione repubblicana. Un modello costituzionale comune a tutte le democrazie contemporanee europee. La nostra non è mai stata una costituzione "bolscevica" (solo Berlusconi poteva fraintendere), non ha, però, mai permesso una deriva neoliberista. La "forza" della costituzione italiana è in ciò: essere una tavola di valori condivisi da tutti, che si può interpretare secondo indirizzi politici anche molto distanti, ma sempre entro un ambito costituzionale delimitato. Su queste basi, in Italia, è stato possibile il progresso civile e politico.
Troppo lungo sarebbe spiegare perché a un certo punto tutto ciò s'è interrotto. Limitiamoci a constatare che dalla generale richiesta di "attuare" la costituzione si è passati ad un'altrettanto generale pretesa di "cambiare" il testo che aveva garantito il progresso in Italia. È noto che tra i protagonisti del cambiamento di prospettiva c'è stata gran parte della sinistra. È stato questo un errore storico dal quale sarà difficile riprendersi. Ma ora interessa parlare d'altro.
Interessa qui parlare dell'ondata neoliberista che si è abbattuta tardivamente in Italia. Dopo la rivoluzione thatcheriana e reaganiana, anche in Italia la destra ha provato a imporre il suo neoassolutismo. Il neoliberismo inteso come un assoluto trascendente, prodotto di un pensiero unico, lo scardinamento della democrazia pluralista per come è stata concepita nella nostra storia contemporanea. Da questo punto di vista era "naturale" che individuasse nella cultura "compromissoria" della costituzione un nemico. Se si voleva imporre una visione unilaterale che facesse strage dei diritti sociali e dell'organizzazione equilibrata dei poteri, diventava necessario cambiare il carattere complessivo della costituzione vigente. La "grande riforma" e le pulsioni costituenti hanno avuto questo senso profondo. Una consapevole strategia di abbattimento del nostro sistema costituzionale pluralistico che ha avuto il suo apice nella riforma della seconda parte della costituzione approvata dal parlamento dalla maggioranza di centro-destra e respinto dal corpo elettorale nel 2006. Fu quello il più importante tentativo di imporre un'"altra" costituzione, che assumeva il premierato assoluto e il neoliberismo ideologico come suo unico fondamento costituzionale. La costituzione pluralista uscì vincitrice da quello scontro terribile, le concezioni totalitarie neoliberali, espresse da un Berlusconi nel pieno del suo vigore polemico, furono sconfitte. Forse è da quel momento - dal referendum costituzionale del 2006 - che può datarsi la fine del berlusconismo come ideologia, la conclusione della parabola politica del centro-destra. In fondo una fine sul campo più "nobile" di quella postribolare che la cronaca di questi giorni ci racconta.
In tal modo si spiegherebbe anche il fatto - altrimenti incomprensibile - del fallimento politico del governo di centro-destra nell'attuale legislatura: sebbene abbia ottenuto la più ampia maggioranza parlamentare mai registrata in Italia, è nato "morto", perché privato di ogni reale prospettiva di sviluppo. La crisi economica e l'assenza di ogni alternativa politica hanno fatto il resto. Oggi cominciamo ad accorgercene.
Anche se "morto" il centro-destra continua però a governare, e vista l'assenza di strategie alternative "vive" non c'è da stupire. E così ci riprova, auspicando la riscrittura dell'articolo 41 della nostra costituzione. Il senso "ideologico" complessivo che si vuole assegnare appare chiaro: stravolgere il compromesso costituzionale, modificando l'equilibrio che in materia d'iniziativa economica ha definito la costituzione pluralista italiana. Si vorrebbe rendere assoluta la libertà degli imprenditori privati e cancellare i contrappesi dell'utilità sociale, del rispetto della dignità umana che la nostra costituzione invece impone. Soprattutto escludere, così come prevede il terzo comma, la possibilità di un coordinamento dell'iniziativa economica pubblica e privata dettata dall'interesse generale della collettività. Eliminare insomma ogni diversa ragione che non sia quella dell'impresa. Un disegno eversore del sistema costituzionale. Un disegno che si pone per questo governo ormai fuori tempo massimo. Non passerà.

di Gaetano Azzariti da Costituzionalismo.it

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