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Speciale sull'assistenza spirituale ai militari: storia e realtà. PDF Stampa E-mail

CHIESA INTERVISTA ALL’ORDINARIO MILITARE D’ITALIA MONSIGNOR ANGELO BAGNASCO:
I NOSTRI SOLDATI, LA FEDE E LA PACE

IL VANGELO IN MIMETICA

La sua è la diocesi più giovane in tutti i sensi: nata nel 1986, punta molto sulla pastorale giovanile. E i preti con le stellette? «Così siamo accolti meglio».

 

Il Vangelo è piccolo, si mette in tasca. Sulla copertina c’è scritto Parola di Dio e Vita Cristiana, con in oro lo stemma della diocesi militare d’Italia, che contiene tre parole: Fides, charitas, spes, "Fede, carità, speranza". Lo hanno stampato le Edizioni San Paolo e da qualche giorno ce l’hanno in mano tutti i nostri soldati in Irak e in Afghanistan. È il regalo del loro vescovo, l’Ordinario militare monsignor Angelo Bagnasco. Contiene i Vangeli, una raccolta di salmi, alcune parti del Compendio del catechismo della Chiesa cattolica e le principali preghiere. La copertina è un cartoncino mimetico verde.

  • Monsignor Bagnasco, si è già preparato alle critiche sulla scelta del Vangelo "in mimetica"?

«È un tocco che lo contraddistingue. Niente di più. Un simbolo di appartenenza, come si fa negli scout e in tante altre associazioni. A meno che non si voglia mettere in discussione l’intera cura pastorale delle Forze armate e l’esistenza dell’esercito. Mi sembra che oggi, in qualunque Paese, i militari sono parte della società, una parte sempre più consapevole del proprio ruolo in ordine alla sicurezza, alla prevenzione e alla costruzione della pace».

  • Il vescovo "militare" è diverso dagli altri vescovi?

«No. È maestro e pastore delle anime come qualunque altro. E i cappellani sono un po’ come i miei parroci. Piuttosto, è la diocesi dell’Ordinariato militare che ha caratteristiche uniche: intanto, non è legata a un territorio, ma a delle persone che, per ragioni di servizio, si spostano molto in Italia e, da quando esistono le missioni internazionali, anche all’estero. Nel tempo, la Chiesa si è posta il problema della loro cura pastorale specifica. Noi la chiamiamo pastorale d’ambiente ed è sempre stata una preoccupazione della Chiesa. A Genova, da dove io vengo, ci sono i cappellani del lavoro, poi abbiamo i cappellani delle navi, con la pastorale del mare. Anche quella tra i militari è una pastorale d’ambiente».

  • Perché avete le stellette?

«Lo so che la cosiddetta "militarità" può fare problema e sembrare fuori posto per un prete. Ma c’è una ragione. Il senso di appartenenza alle Forze Armate è altissimo. È un mondo con regole precise. Il sacerdote, per essere pienamente accolto, ne deve far parte fino in fondo, convinto che il rispetto delle persone e dell’ambiente passa anche attraverso la loro totale condivisione».

  • Qual è il contenuto principale di questa pastorale così particolare?

«La pace. Il Vangelo della pace. E, secondo me, non c’è proprio nessuno al mondo che sia convinto della necessità della pace come i militari».

  • In pratica, la vostra è l’unica diocesi in Italia a cui uno può scegliere di appartenere. Con l’abolizione della leva obbligatoria che cosa è cambiato?

«Nella cura pastorale nulla. Quando c’era la leva obbligatoria, spesso per molti giovani l’incontro con il cappellano era il primo contatto diretto con la Chiesa. Oggi vale la stessa cosa. Piuttosto è cambiata la motivazione, la scelta della vita militare adesso è più consapevole e culturalmente il livello è aumentato, per via delle selezioni e dei concorsi, che sono più impegnativi».

  • La sua è una diocesi con limiti d’età: a 65 anni tutti in pensione, compresi il vescovo e i cappellani. È un limite?

«No. Sappiamo che dobbiamo puntare molto sulla pastorale giovanile, sulla preparazione al matrimonio e sulla pastorale familiare. È vero, questa è la diocesi più giovane d’Italia e non solo per via dell’età. È nata nel 1986, quando Giovanni Paolo II decise, con la costituzione apostolica Spirituali militum curae, di elevare al rango di diocesi tutti gli Ordinariati militari del mondo. Ma è una bella diocesi perché, essendo spalmata su tutta l’Italia, assume sfide culturali, pastorali, sociali e tradizioni molto diverse, che l’arricchiscono».

  • Si dice che i militari siano più cattolici degli altri. È vero?

«Da parte mia, mi limito a osservare che la sensibilità e il sentimento religioso, non la pratica, sono molto radicati tra i militari. Secondo me, c’è una ragione per questo: il 97 per cento dei militari viene dal Sud, dove la società è meno secolarizzata che altrove».

  • Che fede c’è tra i militari?

«Una fede semplice, e tuttavia non "semplicistica", che tende ad andare all’essenziale. Riscontro un’istintiva fiducia nei confronti della Chiesa e della figura del sacerdote. Non ci sono impostazioni sofisticate, e forse un po’ ideologiche, di critica e di messa in discussione dell’istituzione ecclesiastica».

  • Vale anche per i giovani?

«Sì. Ho incontrato molti giovani militari particolarmente consapevoli delle radici religiose sulle quali si fonda il nostro Paese».

  • Lei, nei giorni scorsi, ha celebrato molti funerali di Stato. Che riflessioni ha fatto su quanto accaduto?

«Non mi sarei mai aspettato un’esperienza di questo tipo. Sono diventato vescovo militare nel 2003. E ho sofferto molto per i miei morti. Ma ho visto anche un Paese davvero vicino a questi ragazzi, un popolo che, al di là di reazioni emotive, riconosce chi va a spendere un pezzo della vita, e a volte la perde, per il bene comune».

 

articolo di Alberto Bobbio tratto da Famiglia Cristiana

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CHIESA PARLA IL RETTORE DELLA SCUOLA ALLIEVI CAPPELLANI MILITARI

«CREDETECI, QUI S’IMPARA A FARE IL PRETE DAVVERO»

Molti hanno fatto la scelta da soldati. «Educazione alla carità: questo voglio da loro», dice monsignor Pierotti.

 

Il nome evoca lo spirito delle Forze armate, ma solo nella grammatica: "Scuola allievi cappellani militari". La sintassi è tutt’altro e così l’identità. È il seminario più giovane d’Italia, è il seminario più interregionale della Chiesa italiana. Funziona da nove anni e sabato scorso sono stati ordinati gli ultimi cinque seminaristi. In totale fanno 12 preti, ordinati dall’Ordinario militare d’Italia.

Il rettore, monsignor Alessandro Pierotti, il vescovo militare Bagnasco l’ha preso in prestito dalla diocesi marchigiana di Fano, il vicerettore don Michele Magnani da quella di Novara, il padre spirituale don Maurizio Ferri lo ha chiamato da Milano. Dalla Sicilia al Friuli passando per la Sardegna, fino alla scorsa settimana, i seminaristi erano 24.

Il seminario sta in fondo a via dei Carristi, alla cittadella militare della Cecchignola, accanto al quartiere dell’Eur a Roma. Confina con la caserma del genio e sono stati i genieri dell’esercito a rimettere a posto una parte dei loro edifici per farne alloggi, chiesa, biblioteca, aule di studio e di gioco. Ha una storia normale, perché è normale che una diocesi abbia un seminario. E ha un sacco di vocazioni. Ma, soprattutto, è il segno potente che i cappellani ancora funzionano e sono un esempio di vocazione.

Dice il rettore, monsignor Alessandro Pierotti: «Se un prete ci crede alla vocazione e si guarda attorno, prima o poi qualcosa trova. Come i preti degli oratori». C’è chi ha lottato con la famiglia per arrivare fin qui. Chi se n’è andato di casa per fare il soldato e poi il prete dei soldati, scelte un po’ folli, vocazioni una nell’altra. Di solito funziona così.

Lo studio è al primo posto

Parlano con accenti di tutta Italia questi seminaristi che alla mattina prendono la metropolitana e vanno a studiare nelle università pontificie di Roma, la Gregoriana, la Lateranense, la Santa Croce. Lo studio è al primo posto, severo. Dice il rettore: «Quando monsignor Mani, ordinario militare prima di Bagnasco, riuscì finalmente ad aprire il seminario, non si fece scrupolo di sconti culturali. Voleva preti preparati, preti con una cultura teologica e biblica scrupolosa. I primi studiavano tutti dai gesuiti. Poi abbiamo deciso di allargare l’orizzonte. Inoltre, c’è lo studio delle lingue, inglese per tutti. E l’attività pastorale».

Al sabato i seminaristi vanno nelle parrocchie di periferia e all’Istituto don Guanella, dove vivono gli handicappati: «Educazione alla carità, lavoro duro. Io questo voglio dai seminaristi», sorride il rettore. «Dico sempre che qui s’impara a fare il prete». Quando un militare decide di entrare in seminario si congeda. Da civile passa gli anni di studio.

Poi, una volta ordinato, viene avviata con le istituzioni la pratica per diventare cappellano militare. Ma il passaggio non è automatico. Simone Salvadore, di Lecco, ha 34 anni, da due è in seminario, ma l’ufficiale di complemento l’aveva fatto 13 anni fa: «Sono rimasto in contatto con il mio cappellano, che mi ha aiutato a trovare la strada».

C’è anche chi il militare non l’ha mai fatto, come Pasquale Didonna, 24 anni, di Noicattaro, in provincia di Bari: «A un certo punto ho capito che l’ambiente militare è un luogo di missione. Ho chiesto, ed eccomi qui».

Don Rino De Paola, 27 anni, brindisino, è stato ordinato sabato e ha maturato la vocazione durante il servizio militare al III reggimento trasmissioni di Sacile. Giovanni Medeot, invece, ha capito che questa era la sua strada durante un anno di navigazione con la nave scuola Amerigo Vespucci, dopo essere stato nel seminario di Udine e aver chiesto un anno per riflettere facendo il marinaio, «con la disapprovazione di tutti».

C’è un carrista, Pietro Murgia, 24 anni, di Samugheo, in provincia di Oristano, che andava a tirare colpi al poligono di Capo Teulada, fulminato dalle parole di un cappellano militare dell’Aeronautica; e un altro, Gianni Ciorra, 26 anni, di Castelforte vicino a Latina, famiglia di militari, che con i cappellani ha avuto a che fare fin da piccolo. Sono storie d’Italia che qui si mescolano e aiutano. Osserva il rettore: «Il respiro nazionale dà una mano alla crescita, anche spirituale».

Alberto Bobbio

 

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DA COSTANTINO AL SERGENTE RONCALLI

La storia dell’assistenza spirituale ai militari ha origini antiche. Fu l’imperatore Costantino a volere in ciascuna legione un sacerdote e una tenda per il culto. Fino al 1500, i sacerdoti dipendevano dal proprio vescovo. Gli Stati pre-unitari italiani costituirono le prime organizzazioni ecclesiastiche castrensi.

Nello Stato Pontificio il cappellano maggiore fu istituito da Pio IX nel 1850. Nelle Forze Armate del Regno d’Italia ce ne erano 189. Poi, con le leggi anticlericali approvate dopo l’occupazione di Roma, la cura spirituale dei militari venne abolita. Fu Cadorna, nel 1915, a reintrodurre la figura del prete-soldato: oltre 16.000 sacerdoti vennero arruolati, di cui 2.070 destinati ai corpi combattenti. Il più noto fu il sergente Angelo Roncalli, unico cappellano militare diventato Papa.

Il generale Diaz, dopo Caporetto, affidò a 12 cappellani il compito delicato di visitare tutti i reparti al fronte per «rimontare il morale» dei soldati in vista della controffensiva. L’Ordinariato militare d’Italia nasce nel 1925 e rappresenta un’anticipazione dei Patti lateranensi. La storia dei cappellani nella seconda guerra mondiale segna la progressiva presa di distanza dal fascismo e, quando si costituì la Repubblica di Salò, il maresciallo Graziani ne abolì la figura. Anche nelle formazioni partigiane tanti sacerdoti prestarono opera di assistenza spirituale, senza alcuna configurazione giuridica.

Molti nomi noti della storia della Chiesa italiana sono stati cappellani militari: don Gnocchi, don Facimbeni, don Primo Mazzolari, don Minzoni, ucciso poi dai fascisti, don Aldo Del Monte, cappellano in Russia con gli alpini, morto l’anno scorso, dopo il Concilio fu vescovo di Novara e rinnovatore della catechesi in Italia.

Molti libri hanno raccontato la vita e la morte dei soldati, la loro pena e il calvario della guerra. Don Aldo Del Monte ha lasciato un diario spirituale intenso sulla sua esperienza, La croce sui girasoli, nel quale racconta il dramma della campagna di Russia, nella quale venne anche ferito.

A.BO.

 

 

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