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Convegno del 23/02/01 PDF Stampa E-mail
L'ESPERIENZA SINDACALE NEI CORPI DI POLIZIA AD ORDINEMANTO CIVILE Il riconoscimento del diritto di organizzazione ed attività sindacale è una costante di tutte le riforme dei corpi di polizia civili del nostro paese. Cioè di quella feconda stagione di riforme che, dal 1981 al 1990 ha interessato ben tre corpi di polizia, e cioè la Polizia di Stato, la Polizia Penitenziaria e il Corpo Forestale. Nella riforma dell’81, quella della pubblica sicurezza, da cui ha preso avvio quella stagione di riforme, il riconoscimento dei diritti sindacali agli operatori è addirittura considerato uno dei tre pilastri su cui si fonda l’intero impianto riformatore. Accanto alla smilitarizzazione del corpo delle guardie di P. S. e conseguente istituzione della Polizia di Stato, ed alla riorganizzazione dell’Amministrazione della pubblica sicurezza.Il riconoscimento di questo fondamentale diritto ad una parte dei lavoratori in divisa, e, quindi l’ampliamento delle libertà democratiche, è considerato, dunque, in quegli anni un aspetto imprescindibile del processo di riforma dei corpi dello stato. E questo per tre ordini di motivi:Il primo attiene all’esigenza di superamento di ogni forma di separatezza tra i corpi e la società civile. Esigenza particolarmente avvertita in quegli anni ma anche oggi di grande attualità. In una democrazia moderna e matura, infatti, gli apparati di polizia devono progressivamente perdere le caratteristiche di mere agenzie del controllo sociale, ed assumere in misura crescente quelle di strumento di autodifesa della società dalle minacce che ad un corretto sviluppo possono venire dalla più lieve delle illegalità fino alla più grave, cioè quella mafiosa o quella eversiva.Ma per assicurare questo fondamentale cambiamento di ruolo i corpi di polizia hanno bisogno di canali permanenti di rapporto con la società civile. E le organizzazioni sindacali costituiscono uno strumento formidabile di integrazione degli operatori degli apparati nel tessuto sociale, integrazione che è anche garanzia di fedeltà ai valori democratici e costituzionali. Il secondo ordine di motivi attiene all’idea, non sempre riaffermata negli ultimi anni, secondo la quale non vi può essere alcuna vera riforma dello stato se non vi è il coinvolgimento diretto dei lavoratori del settore. Una partecipazione che per essere davvero incisiva non può che avvenire attraverso le organizzazioni di rappresentanza del personale. Soggetti collettivi in grado di trasformare le aspettative del personale, ma anche le competenze espresse dagli operatori, in vere e proprie strategie di cambiamento.Il terzo ordine di motivi che è all’origine del rapporto tra riconoscimento dei diritti sindacali e riforme dei corpi, attiene alla consapevolezza che nessuna vera riqualificazione del sistema delle forze dell’ordine è possibile, senza il riconoscimento di un moderno ed efficace sistema di tutela delle aspettative professionali e dei diritti degli operatori di polizia.In tutte le riforme dei corpi realizzate negli anni 80 dunque, diritti sindacali e contrattazione dei trattamenti economici e normativi sono considerati non soltanto un giusto riconoscimento verso alcune categorie di pubblici dipendenti, ma soprattutto la strada per una gestione moderna ed efficace del rapporto di impiego. Quella intensa stagione di riforme, che ha visto crescere l’efficienza di alcuni corpi ma anche l’ampliamento delle libertà democratiche al loro interno, si è interrotta per nove anni, dal 1990 al 98, e si riavviata con la legge 78 di quest’anno. Una legge di riordino che ha interessato innanzi tutto i due corpi di polizia a status militare, cioè l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza, che erano rimaste sostanzialmente fuori dalla riforma del 1981.Una legge che ha segnato una discontinuità rispetto alle riforme del decennio precedente. Una discontinuità questa volta di segno negativo, dal momento che per la prima volta, dalla legge 121 dell’81, una riforma dell’organizzazione dei corpi di polizia non è accompagnata dal riconoscimento di maggiori spazi di tutela professionale e di libertà sindacale.E ciò nonostante il ruolo positivo che il sistema di relazioni sindacali ha svolto, specie dopo l’istituzione del comparto sicurezza, per assicurare tutela delle specificità del settore ma perequazione dei trattamenti tra i diversi segmenti del comparto. Migliori condizioni di vita e di lavoro degli operatori della sicurezza, ma incremento della produttività in un settore che ha visto in questi anni crescere la domanda di sicurezza da parte dei cittadini.L’analisi del modello di sindacalizzazione introdotto nel nostro ordinamento dalla riforma dell’81 mette in evidenza lo sforzo, del legislatore, di conciliare il riconoscimento di veri e propri diritti sindacali con la delicatezza delle funzioni di sicurezza pubblica svolte dagli operatori del settore.E’, infatti, alla luce di questa esigenza che vanno lette le norme che riconoscono agli operatori di polizia il diritto di associazione sindacale, ma limitano la composizione delle organizzazioni sindacali ai soli appartenenti in servizio; che fissano il principio della non interferenza nella direzione dei servizi o nei compiti operativi; che prevedono la possibilità di tenere riunioni in divisa, ma entro limiti predeterminati, o che sanciscono opportunamente il divieto di esercizio del diritto di sciopero.Questo è il gruppo di norme che costituiscono la vera ossatura di quel modello di sindacalizzazione. Un modello che ha conosciuto più ampi spazi di libertà sindacale con la riforma della Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale. Cioè quando diventava sempre più evidente che lo stretto rapporto tra operatori della sicurezza e mondo confederale, non solo non determinava alcun indebolimento del rapporto tra l’istituzione e i suoi appartenenti, ma al contrario costituiva un potente fattore di spinta verso politiche sindacali che anche quando erano finalizzate alla tutela degli addetti, guardavano all’efficienza ed integrità dell’amministrazione. Politiche non corporative ma di ampio respiro progettuale, espressione della migliore cultura confederale, che sono state forse determinanti in momenti drammatici della vita del paese, come quelli della lotta al terrorismo ed alla criminalità mafiosa.Un modello che ha generalmente seguito lo schema previsto negli anni ’80 per il pubblico impiego, ma qualche volta lo ha anticipato. Come nel caso della contrattazione decentrata, che è stata introdotta nel sistema delle relazioni sindacali della Polizia di Stato prima che venisse riconosciuta dalla disciplina del pubblico impiego.Un modello che ha il suo punto di forza nella capacità di conciliare la natura pubblicistica della sua disciplina, considerata dal legislatore necessaria in relazione al tipo di funzione svolta dagli operatori di polizia, con il principio dell’autonomia collettiva e l’esigenza di non ingessare il rapporto di impiego esclusivamente dentro il modello della legge e del provvedimento amministrativo.In relazione ai temi affrontati nel dibattito di oggi, è importante sottolineare che quel modello, tuttora vigente, si fonda sulla scelta di una rappresentanza sindacale vera e non di una rappresentanza istituzionale, che era invece alla base del modello adottato dalla legge 382 del 1978 per il personale militare. Nella legge 121, e ancora di più nella legge di riforma della Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale, vi è la consapevolezza che una rappresentanza di tipo istituzionale, cioè non fondata sul pluralismo delle organizzazioni e sul mandato diretto dei lavoratori, non avrebbe avuto la capacità di sostenere e dare impulso a processi di riforma che richiedevano forte capacità di progetto e visione unitaria nella tutela degli operatori. Una visione unitaria che una rappresentanza frantumata per qualifiche e ruoli strutturalmente non può garantire. E’ stata questa consapevolezza che ha spazzato in tempi brevi ogni ambiguità presente nella legge 121, come quella del Consiglio nazionale di polizia. Un organismo istituzionale presieduto dal ministro dell’interno, composto sia da membri nominati dall’amministrazione sia eletti dal personale a suffragio universale da tutti gli appartenenti alla Polizia di stato. A cui veniva affidato il compito di emettere pareri su iniziative e provvedimenti del ministro in materia di gestione del personale.Di fronte alla capacità delle organizzazioni sindacali di gestire direttamente il sistema delle relazioni con la controparte amministrativa e di governo. Ed alla forza delle organizzazioni sindacali, per la legittimazione che veniva dal mandato diretto dei lavoratori, il Consiglio Nazionale di Polizia ha perso progressivamente ruolo fino ad essere abolito con atto normativo. Netta è stata, dunque, l’affermazione per le forze di polizia di un sistema di relazioni sindacali fondato sul pluralismo della rappresentanza, sul valore della maggiore rappresentatività delle organizzazioni, sull’autonomia collettiva delle parti, sia pure all’interno di un sistema pubblicistico di contrattazione.Un sistema di relazioni sindacali che ha consentito di stipulare quattro contratti collettivi di lavoro per il personale delle forze di polizia, che una parte significativa hanno avuto nel miglioramento della condizione degli operatori e nel rafforzamento delle potenzialità operative dell’istituzione.La rivoluzione copernicana del pubblico impiego, realizzata negli anni ’90 con il decreto legislativo 29 e le leggi Bassanini, ha fatto sentire i suoi effetti anche nei confronti del comparto del personale delle forze di polizia e delle forze armate, che per esplicita previsione di legge restavano disciplinati dai rispettivi ordinamenti.La legge 216 del 1992, istitutiva dell’area contrattuale del comparto, e il successivo decreto 195 del ’96 innovavano l’ordinamento del personale ridefinendo il ruolo del sindacato e quello delle relazioni sindacali nella disciplina del rapporto di impiego. E lo innovavano lungo la linea tracciata dal decreto legislativo 29, e cioè quella della più netta distinzione dei ruoli tra un’amministrazione che ha il compito di gestire e un’organizzazione sindacale che assume un più forte ruolo di controllo e di proposta.Di qui, dunque, l’esigenza di articolare e definire con maggiore chiarezza gli schemi relazionali, come quello della consultazione, dell’informazione preventiva e successiva, della contrattazione, dell’esame e della concertazione.E, tuttavia, se sul versante delle forze di polizia civili il sistema di rappresentanza si è sviluppato lungo la linea strategica dell’autonomia e del pluralismo delle organizzazioni del personale, e della distinzione di ruoli con l’amministrazione, sul versante dei corpi militari, si è conservata la linea strategica della rappresentanza istituzionale e della confusione di ruoli tra comandi generali e organismi di rappresentanza del personale.Un’ambiguità strutturale che prescinde dalla grande capacità e passione con cui i membri dei CoCeR esercitano il loro mandato, e che ha determinato non pochi problemi al tavolo delle trattative, perché la gestione e la responsabilità della chiusura di una trattativa richiede una rappresentanza che sia legittimata da un rapporto diretto con i lavoratori e non mediato dai comandi generali, e perché una rappresentanza frantumata tra ruoli e qualifiche non è strutturalmente in grado di valutare il valore complessivo di un’ipotesi di accordo.Problemi, questi, che le ultime modifiche al decreto 195 paradossalmente aggraveranno. Perché all’incremento di ruolo ed autonomia da parte dei CoCeR nella gestione della trattativa, non corrisponde una maggiore visione unitaria del merito contrattuale, ed una maggiore legittimazione degli organismi di rappresentanza che può venire solo dal mandato diretto dei lavoratori. Mandato dei lavoratori che, in generale, Massimo D’Antona, indicava come la condizione imprescindibile per la tenuta di qualsiasi sistema di negoziazione collettiva anche nel pubblico impiego.Ma l’ambiguità strutturale degli organismi di rappresentanza militare ha creato non pochi problemi anche al di fuori del tavolo delle trattative. Le recenti vicende che hanno portato alla sostituzione del presidente del CoCeR dei Carabinieri dimostrano, infatti, l’insufficienza e i rischi di una rappresentanza istituzionale nata per evitare esasperazioni politiche nell’attività di tutela del personale, e che ha finito invece per rendere ancora più dirompente lo scontro politico, ingenerando confusione nell’opinione pubblica circa la linea di demarcazione della rappresentanza dei delegati e quella dell’istituzione.La decisione, per altro corretta, di far partecipare alle trattative i membri del CoCeR in abiti civili e non più in divisa, non è in grado evidentemente di ovviare a questo tipo di problemi, che richiedono invece scelte strutturali chiare e incisive. Come quella di avviare una nuova stagione di riforme nei corpi dello stato, che punti nell’immediato al pieno riconoscimento del diritto di associazione tra i militari e, in prospettiva, al riconoscimento del diritto di organizzazione ed attività sindacale.Una rappresentanza sindacale che tenga conto delle funzioni svolte dal personale militare, ma che sia altrettanto rispettosa del principio del pluralismo e della partecipazione democratica di tutti i lavoratori alla vita pubblica. Principi, questi, che ritroviamo nella proposta di Legge di riforma del sistema di rappresentanza firmata, tra gli altri, dagli Onorevoli Ruffino e Spini. Una battaglia difficile, questa che la Cgil e le associazioni stanno conducendo sul fronte della rappresentanza dl personale militare. Una battaglia sulla quale pesa come un macigno la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato legittimo il divieto per i militari di iscriversi ad organizzazioni di natura sindacale. Una sentenza che, per le argomentazioni offerte e per la decisione adottata, riporta indietro di cinquant’anni la cultura giuridica del nostro paese, che molta strada aveva fatto sul terreno delle libertà civili.In questa battaglia, che è di libertà e di democrazia, il SILP continuerà ad essere in prima linea, al fianco dei colleghi dei corpi militari che oggi si battono, come noi abbiamo fatto oltre venti anni fa, perché il paese, nel rispetto delle funzioni svolte, riconosca ai lavoratori in divisa il pieno esercizio dei diritti fondamentali di ogni cittadino. E una nuova stagione di riforme riteniamo debba riguardare anche il sistema delle relazioni sindacali del personale della Polizia di Stato. Un sistema che ancora prevede anacronistici divieti per i sindacati di categoria, di aderire ad altre organizzazioni. Un sistema che dopo l’ultimo accordo nazionale quadro, consente che al tavolo delle trattative decentrate di molte sedi periferiche siedano organizzazioni senza alcuna rappresentatività, mentre ne restano quelle che oggi hanno i maggiori consensi.Le stesse ragioni di fondo, espresse con molta efficacia da Beppe Casadio, di un impegno in prima persona della CGIL sul terreno delle politiche di legalità, valgono rispetto all'esigenza di una rappresentanza di tipo confederale dei lavoratori della Polizia di Stato. Perché l'impegno politico dei grandi soggetti sociali nell'azione di contrasto ad ogni forma di legalità non può prescindere dalla rappresentanza diretta dei lavoratori impegnati in questo delicato settore dell'attività dello Stato. Urgente, dunque, è un intervento riformatore che riconosca più ampi spazi di libertà sindacale agli operatori, che riconosca senza infingimenti il valore della rappresentatività delle organizzazioni, e fissi regole uniche per tutti i soggetti del comparto (a partire da quella che dovrebbe consentire ad ogni lavoratore di versare i contributi sindacali all’organizzazione di cui fa realmente parte in quel momento, e non a quelle di cui non condivide più alcun programma).Una scelta riformatrice, quella dell’ampliamento delle libertà sindacali, che questi venti anni di sindacalizzazione delle forze di polizia civili confermano essere quella giusta, per la tutela dei diritti dei lavoratori, ma soprattutto per l’efficienza del sistema sicurezza.

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