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Quattro piloti di elicottero CH-47 impegnati nella missione in Iraq sono stati denunciati alla Procura Militare per ammutinamento PDF Stampa E-mail

La stampa nazionale e persino le televisioni hanno dato una grande rilevanza alla notizia, già diffusasi nell'ambiente, di quattro militari dell'Aviazione Esercito (piloti di elicottero CH-47) denunciati alla Procura Militare con l'ipotesi di aver commesso il reato di ammutinamento.

L'accusa è gravissima perché già l’articolo 175 del codice penale militare di pace prevede: «sono puniti con la reclusione militare da sei mesi a tre anni, i militari che riuniti in numero di quattro o più rifiutano, omettono o ritardano di obbedire a un ordine di un loro superiore»; figuriamoci per la missione "Antica Babilonia" dove è prevista l'applicazione del Codice Penale Militare di Guerra.

Senza voler entrare nel merito specifico della vicenda, forse con un minimo di buon senso si poteva evitare di dare un eccessivo risalto "burocratico" alla vicenda che vanifica gran parte dell'immagine positiva costruita finora dalle forze armate italiane anche con la difficile e sacrificata missione in Iraq.

In un mondo dove la comunicazione è quasi tutto bisognerebbe rendersi conto che il buonsenso, la professionalità e la tutela del personale spesso non sono in antitesi alla "militarietà".

Oggi apparire è quantomeno importante all'essere ed anche per le forze armate è sempre più necessario prestare la giusta attenzione all'immagine percepita dall'opinione pubblica.

Infine per una organizzazione è sempre "antipatico" non saper gestire con efficacia il rapporto con i suoi uomini. Lo scontro inevitabilmente provoca la rottura della necessaria armonia che invece è sempre auspicabile quando si devono perseguire scopi in condizioni ambientali sicuramente "difficili".

La fiducia è il rispetto reciproco sono sempre una condizione essenziale tra un militare ed il suo comandante!

Per tutto questo auspichiamo che il buon senso abbia il sopravvento e si ridimensioni quanto prima questa spiacevole vicenda che non fa bene a nessuno.

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La riflessione di AMID - 3D

 

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Premesso che le Forze Armate italiane hanno fornito e continuano a fornire un elevato e qualificato contributo per le missioni di mantenimento della pace, di difesa del diritto internazionale, di salvaguardia dei diritti civili e umanitari oltre che di contrasto del terrorismo internazionale, è venuto ormai il momento di produrre un necessario approfondimento sulle ragioni e sulle condizioni di partecipazione dei contingenti militari italiani alle operazioni internazionali.

Il primo chiarimento da compiere deve essere in chiave di politica estera, definendo in maniera inequivocabile quando e come devono intercorrere le condizioni della partecipazione italiana ed in particolare se deve susseguire ad una risoluzione ONU o UEO o meno.

In tale ambito sarebbe auspicabile una linea coerente d’indirizzo indipendente dal Governo di turno in aderenza con gli impegni assunti negli accordi sottoscritti con l’Unione Europea e la NATO.

Una volta definito il quadro politico generale e l’ambito in cui ci si deve muovere, è necessario produrre un definitivo chiarimento sul grado di complessità del contributo di partecipazione delle Forze Armate italiane alle missioni internazionali.

Per fare questo è necessario determinare chiaramente il ruolo che esse devono assumere definendo il programma di investimenti adeguato a rendere gli strumenti rispondenti ai compiti assegnati.

In tale ambito non vanno trascurati i necessari programmi addestrativi tali da garantire i migliori standard di efficienza e di sicurezza.

Componente fondamentale di tutto il progetto deve essere l’elemento umano perché è ormai imprescindibile poter contare su personale altamente qualificato, motivato e predisposto a tale impiego.

Le Forze Armate italiane in brevissimo tempo sono passate da una caratterizzazione di guarnigione a quella di una elevata proiezione: tutto questo non si inventa ma si programma sia per quanto attiene all’ordinamento futuro delle Forze Armate sia al necessario adeguamento della componente umana.

In tutte le dottrine militari è assodato che la condivisione del progetto da parte del personale è un requisito essenziale per la sua riuscita; pertanto, non è produttivo pensare di sacrificare la loro condizione in nome di una presunta militarità.

Confortati da numerose e positive esperienze delle Forze Armate dei Paesi più avanzati dell’UE, ribadiamo la necessità e l’utilità di realizzare le riforme per realizzare la migliore tutela dei diritti del personale militare.

La condizione del militare è una cosa molto delicata perché a lui si affida la difesa dei diritti e della democrazia di tutta la comunità nazionale ed internazionale, pertanto è inaccettabile che chi difende tali diritti, anche a costo della propria vita, non ne possa fruire.

Riepilogando, a nostro avviso, è necessario che il Governo ed il Parlamento:

Ø     approfondiscano e chiariscano la politica estera che l’Italia deve attuare in ambito internazionale

Ø     definiscano un adeguato programma d’investimenti coerente con il ruolo da svolgere

Ø     approvino le riforme necessarie per realizzare una migliore tutela della condizione professionale del personale militare italiano adeguandola agli standard europei più evoluti.

Le droghe sono cari, è per questo che alcuni pazienti non possono comprare le medicine di cui hanno bisogno. Tutti i farmaci di sconto risparmiare denaro, ma a volte le aziende offrono condizioni migliori rispetto ad altri. Circa il venti per cento degli uomini di età compresa tra 40 e 70 non erano in grado di ottenere l'erezione durante il sesso. Ma non è una parte naturale dell'invecchiamento. Questioni come "Comprare kamagra oral jelly 100mg" o "Kamagra Oral Jelly" sono molto popolari per l'anno scorso. Quasi ogni adulto conosce "kamagra 100mg". Le questioni, come "Comprare kamagra 100mg", si riferiscono a tipi diversi di problemi di salute. In genere, avendo disordine ottenere un'erezione può essere difficile. Prima di prendere il Kamagra, informi il medico se si hanno problemi di sanguinamento. Ci auguriamo che le informazioni qui risponde ad alcune delle vostre domande, ma si prega di contattare il medico se si vuole sapere di più. personale professionale sono esperti, e non saranno scioccati da tutto ciò che dici.

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LA RASSEGNA STAMPA

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Dal Corriere della Sera

Rischiano fino a tre anni di carcere

«Non andiamo in Iraq», 5 piloti sotto inchiesta
La procura militare ipotizza l’ammutinamento.
Gli elicotteristi dell’Esercito: i nostri mezzi non hanno difese adeguate

ROMA - L’accusa ipotizzata è pesante: ammutinamento. Sotto inchiesta ci sono cinque piloti dell’Esercito che hanno rifiutato la missione in Iraq. Dovevano partire a dicembre. Non l’hanno fatto spiegando che non erano state garantite le condizioni di sicurezza. Un atto di disobbedienza che adesso si è trasformato in una denuncia presentata dal comando di Viterbo alla procura militare. Al termine di un’indagine disciplinare interna, i responsabili del reggimento Antares hanno deciso di coinvolgere la magistratura per l’eventuale contestazione dei reati previsti dal codice militare di pace.

 IL RIFIUTO - Da sempre impegnati all’estero, gli elicotteristi di stanza a Viterbo sono stati coinvolti anche in «Antica Babilonia». Alla fine dell’anno, quando nell’ambito di tutti i reparti è stato deciso un avvicendamento dei militari da impiegare, cinque di loro hanno comunicato al comandante che non sarebbero partiti per Nassiriya. E hanno motivato il loro «no» sottolineando la carenza di misure di sicurezza tali da tutelare l’incolumità dei militari. Immediata è partita un’indagine disciplinare interna. Gli accertamenti, durati circa due mesi, si sono conclusi la scorsa settimana con la decisione di trasmettere gli atti alla procura militare.

L’INCHIESTA - Il fascicolo aperto dal procuratore Antonino Intelisano ipotizza il reato di ammutinamento. Secondo l’articolo 175 del codice penale militare di pace «sono puniti con la reclusione militare da sei mesi a tre anni, i militari che riuniti in numero di quattro o più rifiutano, omettono o ritardano di obbedire a un ordine di un loro superiore». Questo dice la norma, ma adesso spetterà al magistrato stabilire se la decisione di non partire possa essere interpretata come un rifiuto degli ordini impartiti. Per farlo dovranno essere verificate le regole d’ingaggio della missione e i compiti impartiti al Reggimento. Quando questa attività sarà terminata, verranno convocati i piloti che dovranno chiarire i motivi del loro atteggiamento. E specificare in base a quali elementi abbiano ritenuto che le misure di sicurezza fossero insufficienti.

I COMPITI - Inizialmente in Iraq vennero inviati sei elicotteri (tre della Marina e tre dell'Aeronautica) che disponevano di un sistema automatico di protezione per «ingannare» i missili terra-aria usati dai terroristi. Subito dopo l’Esercito si è dotato di apparati antimissile da installare sui grandi Agusta Ch47 Chinook da trasporto, quelli che compaiono spesso d’estate per domare gli incendi, e sugli Agusta-Bell 412 Grifone. Si tratta però di apparecchiature che non agiscono in automatico: c’è una sorta di radar che segnala il missile in arrivo e i piloti devono far scattare manualmente le contromisure, dei grossi fuochi d’artificio che «accecano» la testata del missile. E per la missione in Iraq l'Esercito ha costituito un reparto speciale, il 26° gruppo Reos, forte di tre Chinook e 4 Grifone con circa 110 uomini, schierato sull’aeroporto di Tallil. Il reparto è diventato operativo a metà dicembre: i militari hanno compiti di pattugliamento e di scorta oltre a fornire supporto alle operazioni condotte dai mezzi a terra.

LE VITTIME - E’ alto il tributo pagato dai piloti in missioni di pace all’estero. Il 7 gennaio del 1992 la tragedia della ex Jugoslavia: a nord di Zagabria un elicottero del contingente degli osservatori Cee fu abbattuto da un Mig serbo provocando la morte di quattro militari, tutti della base di Viterbo.

Fiorenza Sarzanini
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Dall'Unità

Iraq, rifiutano di pilotare l'elicottero senza sicurezza.
Ora rischiano il carcere

di Anna Tarquini

Dicono che sui «Ch47 Chinook», gli elicotteri che l’esercito ha inviato in Iraq, per attivare i sistemi antimissile i piloti devono azionare contemporaneamente manualmente due cavi, uno dei quali è posto all’esterno. Immaginatevi la scena: il pilota vede il missile arrivare, stacca una mano dalla cloche e con l’altra tira il cavo che lancia un "flare", una specie di «abbagliante» che depista il missile. Il mitragliere che gli è accanto, con una mano tiene una mitragliatrice che spara centinaia di colpi al secondo e con l’altra tira l’altro cavo. È la differenza che passa tra la vita e la morte. È l’equipaggiamento in dotazione dei nostri militari impegnati nelle missioni di pace. E ora è scoppiato il caso. Purtroppo nel modo peggiore, perché quattro volontari ora saranno giudicati secondo il codice militare per essersi rifiutati di volare senza le minime condizioni di sicurezza. Il reato ipotizzato dalla Procura militare è ammutinamento. Ora rischiano fino a quattro anni e mezzo di carcere per aver «svelato» come la missione italiana in Iraq manda allo sbaraglio i nostri soldati; senza equipaggiamento, senza addestramenti adeguati e con elicotteri a comando manuale. E la gogna: «Sono ottimi piloti ma pessimi soldati - ha dichiarato il generale Luigi Chiavarelli, comandante dell' Aviazione dell'esercito.
Dopo la strage

L’episodio è avvenuto nel dicembre scorso a Tallil, vicino Nassiriya. I quattro piloti erano partiti per la missione «Antica Babilonia» nel momento più caldo, subito dopo la strage alla caserma dei carabinieri. Arrivavano dalla base militare di Viterbo e avrebbero dovuto prestare servizio nell' aeroporto gestito dal sesto Reparto operativo autonomo dell'Aeronautica militare, dove l' esercito è presente con oltre 100 soldati e 7 elicotteri (tre Chinook Ch47 e quattro AB412). Gli elicotteri dell’esercito fanno soccorso medico, evacuazioni sanitarie, ricognizioni, controllo del territorio ed altre attività operative. A loro era stato chiesto di fare ricognizioni notturne per limitare i rischi di essere intercettati dai missili terra-aria.
Secondo una prima ricostruzione i quattro militari non si sarebbero rifiutati di volare, ma avrebbero chiesto ai superiori un periodo di addestramento. Tanto per avere un’idea delle reali condizioni di sicurezza a cui sono costretti i soldati italiani, nemmeno anche l’addestramento è stato loro negato. La versione del generale Tonon, comandante del raggruppamento aviazione dell' esercito di Viterbo, dissente: «I quattro piloti del gruppo di volo inviato in Iraq - spiega - una volta messi al corrente della minaccia in loco, hanno dichiarato di non sentirsi troppo preparati, insicuri e poco protetti, spiegando al comandante che non se la sentivano di affrontare i rischi. Sono stati quindi rimpatriati ed il comando ha proceduto ad un' inchiesta tecnico-disciplinare che si è conclusa con delle sanzioni per i quattro».

I piloti sarebbero allora stati rimpatriati in Italia senza tante spiegazioni. Poi su segnalazione dei diretti superiori, in primis il generale Luigi Chiavarelli, comandante dell’aviazione dell’Esercito è stato aperto il procedimento disciplinare. E qui al danno si aggiunge la beffa perché nelle missioni di pace in terra straniera si applica il codice militare di guerra. L’inchiesta è passata alla procura militare dove il procuratore Antonino Intelisano ha aperto un fascicolo ipotizzando il reato di ammutinamento che per il codice di guerra è reato gravissimo.

Il velo strappato
Non si conoscono i nomi dei quattro «ammutinati», si sa soltanto che sono i due sottufficiali e due ufficiali, e che tre di essi sono sposati. Il loro caso però rischia di diventare un simbolo e ha spaccato il mondo militare prima ancora che quello politico. Perché se il generale Chiavarelli parla di «schiaffo agli altri 113 loro colleghi che dall' arrivo Nassiriya hanno già effettuato oltre 400 ore di volo in missioni diurne e notturne, senza correre alcun rischio», altri militari dell’Esercito hanno strappato il velo sulla verità. «Mi sembra assurdo - spiega il maresciallo capo Pasquale Fico, delegato Cocer - che un mitragliere debba tenere una mano sulla mitragliatrice e una su un cavo che aziona un sistema antimissile artigianale. Questi quattro piloti rischiano anni di galera per aver sollevato un problema serio sulla sicurezza che riguarda tutti».

I Ds hanno chiesto al Governo di riferire in Parlamento. «Avevamo sollevato con un' interrogazione parlamentare del 2 dicembre scorso - spiega Marco Minniti - il tema della sicurezza dei reparti volo dell' esercito impegnati in Iraq. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Ora è urgente, alla luce della vicenda che colpisce in prima persona quattro elicotteristi italiani, che il governo venga in Parlamento prima o nel corso della discussione del decreto di proroga di partecipazione alle missioni italiane all' estero».

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Da Repubblica

E' bufera tra le forze politiche sui militari che hanno rifiutato di andare in Iraq perché non si sentivano protetti
Gli elicotteristi e il no a Nassiriya: Il generale: "Sono cattivi soldati"
I Ds: "Il governo rifersica in Parlamento"
Diliberto: "Solidarietà al gesto di quei ragazzi"

ROMA - Quattro elicotteristi dell'esercito italiano si sono rifiutati di prestare servizio a Nassiriya in Iraq. Si consideravano poco protetti. Sono stati rimpatriati e adesso rischiano una condanna per ammutinamento. La vicenda è avvenuta nel dicembre scorso, subito dopo l'attentato in cui morirono 17 militari e due civili italiani ma se ne è avuta notizia solo oggi. Il caso ha scatenato una serie di reazioni che hanno diviso il mondo politico. I ds chiedono che il governo riferisca al Parlamento sulla vicenda. Non è più dunque soltanto una questione di giustizia militare. Dopo settimane di polemiche in Parlamento sulla necessità di rifinanziare la missione in Iraq.

E' il generale Roberto Tonon, comandante del raggruppamento aviazione dell'esercito di Viterbo a spiegare quanto avvenuto. "I quattro piloti del gruppo di volo inviato in Iraq - dice - una volta messi al corrente della minaccia in loco, hanno dichiarato di non sentirsi troppo preparati, insicuri e poco protetti e hanno dichiarato al comandante che non se la sentivano di affrontare i rischi. Sono stati quindi rimpatriati e il comando ha proceduto ad un'inchiesta di carattere tecnico-disciplinare che si è conclusa con delle sanzioni per i quattro. Tutti gli atti sono stati trasmessi alla procura militare di Roma competente per le attività all' estero".

"Quello dei quattro elicotteristi - secondo il generale - è un comportamento censurabile, per questo siamo intervenuti sul piano disciplinare: noi facciamo di professione i piloti militari e ci prepariamo proprio per questo tipo di missioni; se poi non prestiamo servizio che ci stiamo a fare?". Le minacce da affrontare in Iraq, prosegue, "vengono valutate dall'intelligence. Si tratta di missili per lanciatore singolo, a guida infrarossa. La contromisura per questo tipo di missili sono i cosiddetti 'chaff and flare', sistemi che lanciano striscioline e petardi che ingannano i radar e le testate dei missili. I nostri elicotteri - sottolinea - sono dotati di questo equipaggiamento: lo abbiamo applicato prima di partire, siamo partiti in ritardo proprio per questo motivo". Dunque, conclude Tonon, "i quattro elicotteristi non avevano particolari motivi di ritenersi a rischio".

Giudizio durissimo anche da parte del generale Luigi Chiavarelli: "Sono ottimi piloti ma pessimi soldati". Chiavarelli smentisce inoltre che i quattro siano attualmente sospesi dal servizio: "Sono al loro posto tutti e quattro l'unico provvedimento adottato per il momento nei loro confronti è quello di aver loro vietato di volare".

Se questa è la versione dei militari, la valutazione di gran parte dell'opposizione è opposta. "E' stato un atto di coraggio e insieme di grande saggezza", dice il segretario dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto. Che aggiunge: i militari "possono contare sulla solidarietà mia personale e di tutto il mio partito" e ribadisce di ritenere il governo italiano "responsabile morale e politico dei morti di Nassiriya".

"Non dovrebbero essere messi sotto inchiesta. Andrebbe messo sotto inchiesta chi ha deciso di inviare in Iraq dei mezzi insufficientemente difesi specie in zona operativa", dichiara Falco Accame, presidente dell'associazione vittime arruolate nelle forze armate che rileva come, anche questo caso, "rientra nella tradizione italiana di inviare uomini a combattere senza adeguate protezioni".

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Dal Corriere della Sera

E la Cavalleria dell’aria restò senza l’«antimissile»

Eroi delle missioni di pace, esclusi finora da Antica Babilonia per l’assenza di protezioni contro i razzi

Dove è finita la Cavalleria dell’aria? E’ la domanda ripetuta in tutti gli ambienti militari alla vigilia della missione in Iraq. Venti anni fa i piloti dell’Esercito hanno sfidato la guerra del Libano, volando tra le cannonate con la bandiera dell’Onu. Hanno combattuto nei cieli di Mogadiscio, aiutando i soldati rimasti intrappolati al check point Pasta. Hanno pagato un tributo di sangue in Jugoslavia, quando un elicottero con simboli di pace venne abbattuto a tradimento da un Mig serbo. E poi altre decine di spedizioni, quasi a farne un simbolo dell’impegno italiano all’estero: gli uomini della nostra Aviazione leggera erano i più richiesti, dall’Onu, dalla Nato, dagli americani. Ufficiali e tecnici che sapevano tenere testa a tutte le situazioni più difficili. E chi decideva di indossare il «basco azzurro» sapeva di non andare incontro a una vita comoda: d’estate sui boschi a spegnere incendi, d’inverno sui monti a soccorrere paesi isolati. E ancor più spesso oltre confine nelle zone più pericolose, dove i volontari non sono mai mancati, anche per incrementare con le indennità uno stipendio veramente basso. Poi dal 2002 sono rimasti a terra: l’Italia va in Afghanistan, ma gli elicotteri non partono. Ai nostri alpini «danno un passaggio» i Blackhawk statunitensi. Perché? Perché si era passati dalle rischiose attività di peacekeeping a quelle di una vera guerra. E perché su nessuno dei 290 elicotteri dell’Esercito c’erano sistemi per contrastare i missili terra-aria. Può sembrare incredibile, ma su nessuno dei nostri velivoli, vanto da mezzo secolo dell’industria nazionale, erano stati installati questi apparecchi che «ingannano» le armi a guida infrarossa. Radar in miniatura, che avvistano la traccia del missile e fanno scattare una pioggia di minuscoli razzi destinati ad «accecarlo». Schermi elettronici, che costano dai 100 mila euro in su.

Il problema si è ripetuto con la decisione, abbastanza improvvisa, di intervenire in Iraq. Per i quasi tremila uomini di Antica Babilonia, il contingente più grande dopo quello anglo-americano, sono stati raccolti solo sei elicotteri: tre dell’Aeronautica e tre della Marina. L’Aeronautica, infatti, dopo il Kosovo si è preoccupata dell’eventualità di andare a soccorrere un pilota caduto in territorio ostile. Ha dedicato così parte dei fondi a trasformare i suoi vecchi HH-3F Pelikan in macchine capaci di sfidare le minacce peggiori, con serbatoi corazzati, mitragliere e - soprattutto - apparati per contrastare i missili. Anche la Marina aveva protetto i suoi Sh-3D usati dai marò del San Marco e dai commandos del Comsubin con sistemi simili. Mentre l’Esercito non disponeva di nulla del genere.

E nonostante queste precauzioni, i decolli nel cielo di Nassiriya di Marina e Aeronautica sono sempre rimasti ad alto rischio. Perché è come se la resistenza irachena avesse concentrato gli sforzi contro gli elicotteri. Cerca di colpirli con qualunque arma: kalashnikov, razzi Rpg, missili Strela. Da maggio gli americani hanno già perso 15 velivoli. Il periodo più duro è stato a novembre, con quattro abbattimenti in due settimane: 39 soldati morti e 25 feriti. Uno choc anche per il Pentagono, che ha dovuto cambiare le procedure dei voli e potenziare ulteriormente le «barriere elettroniche» di bordo: si stanno comprando congegni che costano 250 mila euro l’uno.

E l’Esercito? Nel 2002 lo Stato maggiore è corso ai ripari, acquistando una prima serie di apparati antimissile. Ha dovuto attendere, perché le aziende produttrici sono zeppe di ordini. I primi esemplari installati, poi, sono meno moderni di quelli già in dotazione a Marina e Aeronautica. E c’è stato meno tempo per l’addestramento prima di partire verso l’Iraq. Ma per garantire un livello di sicurezza comunque alto, il comando ha adottato tattiche particolari, con voli di squadriglie in cui i nostri Grifoni si proteggono l’un l’altro. E sta cercando di migliorare giorno dopo giorno anche gli «scudi» anti-missile, soprattutto per difendere i grandi Chinook che sembrano essere diventati la preda più ambita dai cecchini di Al Qaeda.

Gianluca Di Feo

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Dal Corriere della Sera

Cingolati d’epoca e blindo logore: L’Italia in missione a corto di fondi
Nel ’91 i caccia, ora gli elicotteri: corsa all’ultimo minuto per rendere sicuri i mezzi

Gianluca Di Feo

Le missioni in zona di guerra costano. Perché ci vogliono mezzi veramente sicuri. E perché tutto tende a logorarsi: navi, aerei, camion, persino le scarpe dei soldati si rovinano con una velocità dieci volte superiore al normale. E le nostre forze armate non hanno fondi. Così ogni spedizione rischia sempre di trasformarsi in una gara contro il tempo, per mettere comunque i militari italiani in condizione di compiere il loro dovere. E’ un copione che si ripete, sin dalle prime tragiche esperienze della Somalia. All’epoca i nostri cingolati, versioni ammodernate dei vetusti M-113, si dimostrarono incapaci di resistere ai razzi dei miliziani. Fu necessario correre a comprare delle corazze aggiuntive, degli «scudi» da incollare all’esterno dei veicoli. Stessa situazione per il primo intervento in Bosnia, con lo Stato maggiore costretto a fare il giro dei fornitori internazionali e implorare consegne rapide.

SENZA CORAZZA - Facile chiedersi: perché non si è pensato prima a sostituire i cingolati? L’Esercito in realtà si è posto il problema già all’inizio degli anni Ottanta: dalle sue direttive venne progettato un mezzo ottimo, chiamato Dardo. Poteva entrare in servizio ben prima della Somalia ma non si sono trovati mai i fondi. Il contratto è stato finalmente sbloccato nel 1999, con un ventennio di ritardo, e gli esemplari sono diventati operativi solo lo scorso anno. Con una beffa. In piena guerra fredda, si usavano plotoni con sette soldati. Ora invece il modo di combattere è cambiato: i plotoni hanno otto fanti. Mentre il Dardo ne può trasportare soltanto sette...

Quello del Dardo è comunque un capitolo a lieto fine. Un altro aiuto invocato spesso dai militari all’estero sono le autoblindo. L’esercito non ne acquista dai primi anni Settanta. E dopo un decennio di pattuglie tra le nevi del Kosovo e le foreste del Mozambico, queste vecchie Fiat 6614 sono praticamente inservibili. Per tirare avanti sono stati «presi in prestito» gli esemplari dell’Aeronautica e addirittura quelli della Polizia. Ma è chiaro che ai soldati in Iraq i Lav dei Marines a sei ruote e persino le massicce Btr sovietiche del contingente ucraino sembrano miraggi. Anche in questo caso, l’Esercito ha fatto le sue scelte da tempo: le blindo Puma, perfette per i vicoli di Nassiriya. Dovevano arrivare quest’anno, il programma è stato poi «rallentato» per carenza di fondi fino al 2005.

SENZA OPTIONAL - Pur di andare avanti, poi, si tende a comprare apparati nella «versione base» e poi potenziarli nel momento del bisogno. Ma non sempre il trucco riesce. E’ il caso degli elicotteri al centro dell’ultima polemica. I nostri velivoli non hanno nulla da invidiare a quelli americani o britannici, il problema sono le «dotazioni speciali». I caschi che permettono ai piloti di vedere nel buio, i sedili corazzati per proteggere dai kalashnikov, gli schermi che diminuiscono il calore dei motori per non attrarre le testate all’infrarosso. E soprattutto gli apparati radar che avvistano i missili nemici e fanno scattare le contromisure. Insomma, tutto quello che permette di sopravvivere in mezzo a una guerra.

C’è un drammatico precedente: la Tempesta del Deserto del 1991, prima spedizione bellica italiana dal 1945. Dieci Tornado decollarono per la prima missione: solo uno arrivò sul bersaglio e venne abbattuto. I Tornado erano all’epoca tra i migliori caccia del mondo, ma dovevano esporsi alle cannonate per sganciare «bombe» stupide perché non ne erano mai state comprate di «intelligenti». Una lezione che l’Aeronautica ha cercato di non dimenticare. Lo Stato maggiore dell’Esercito, invece, è stato preso di sprovvista dall’11 settembre. Prima di allora, infatti, i soldati si sono occupati solo di peacekeeping: azioni rischiose, ma sempre in un contesto di pacificazione. Nel 2002, alla vigilia dell’intervento in Afghanistan, il comando americano ha sconsigliato il trasferimento degli elicotteri dell’Esercito: «Non sono attrezzati per quei pericoli». A quel punto si è cercato di trovare i quattrini. Ma non è così semplice. Prima si è pensato di fare le cose con calma: 36 milioni di euro per rendere «combattivi» i Mangusta, già dotati di corazze e visori notturni. Poi invece è scattata Antica Babilonia. E si è tornati a correre per inventare una soluzione. A giugno sono stati stanziati 3 milioni e si è chiesto con una trattativa privata all’Agusta di «rendere sicuri» i velivoli entro dicembre. Un tempo veramente ridotto, in cui bisognava installare i sistemi e addestrare gli equipaggi. E mentre i nostri generali dovevano fare i salti mortali per raggranellare questi fondi, il Pentagono stanziava miliardi di dollari per aumentare ulteriormente le difese dei suoi Blackhawk.

ALTRI TAGLI - Il rapporto 2003 della Marina, appena pubblicato, usa una frase burocratico-militarese per definire la situazione: «difficili compatibilità del bilancio». Aumentano gli impegni all’estero ma non gli stanziamenti. Aumentano gli stipendi da pagare per sostituire i marmittoni di leva con i professionisti (più 6,1%), ma non i bilanci. E così si taglia sull’acquisto di mezzi nuovi (-4,1%) e si risparmia sui ricambi(-11%). Per finire a rischiare la pelle nel Golfo Persico, dove molti degli uomini che garantiscono la sicurezza delle navi hanno ancora il mitra Mab, quello di El Alamein. Proprio davanti a quei marinai, quattro mesi fa il presidente Ciampi ha invocato «forze armate europee più efficienti». Ma il bilancio 2004 non offre speranze ai militari italiani. L’Esercito dovrà tagliare 100 milioni dai nuovi acquisti, l’Aeronautica 71, la Marina 16. Si cerca solo di salvare 45 milioni per l’equipaggiamento delle «forze speciali», più esposte alle minacce. Il tutto mentre - lo ha ribadito due giorni fa il generale Giulio Fraticelli - si sta preparando un’altra spedizione in Afghanistan.

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Esercito, i piloti ammutinati e il suicidio dell'Aves


Giovanni Bernardi, 6 marzo 2004


Quello che più disturba nella questione degli elicotteristi italiani dell'Aviazione dell'Esercito (Aves) - che di per sé sembra partita come una nota tecnica sulla sicurezza del volo in operazioni - è che si sia trasformata prima in una questione disciplinare, poi in una questione penale, quindi in scontro politico.

Rimasta dormiente per due mesi, è stata fatta esplodere proprio nel momento in cui in Parlamento è in atto uno scontro politico sul rifinanziamento della missione in Iraq. Un tempismo migliore sarebbe stato difficile immaginarlo. Conclusione: ancora una volta i militari sono diventati strumento di scontro politico.

La storia della politica interna italiana è talmente piena di esempi di strumentalizzazione delle forze armate per scopi politici, che non vale nemmeno la pena ricordarli. E le forze armate non lo hanno ancora capito, tanto che, se mancano le occasioni o se l'opinione pubblica è tutta schierata a favore, il caso lo creano.

Da quanto si riesce a capire dalle cronache (prima fonte: Corriere della Sera, che ha sollevato il caso), due ufficiali e due sottufficiali, partiti per l'Iraq per prestare servizio nella Italian Task Force della operazione Antica Babilonia, hanno presentato una nota tecnica nella quale si evidenziava un basso livello di sicurezza dei voli operativi nel contesto iracheno.

Sommando le cronache del Corriere e quelle degli altri quotidiani che hanno ripreso l'argomento, non è chiaro se i membri dell'equipaggio si siano rifiutati di volare. In una intervista al Corriere un pilota afferma di avere svolto regolarmente i suoi voli e quindi di avere inviato un rapporto al proprio comandante.

A questo punto vi sono alcuni dati di fatto sui quali vale la pena di soffermarsi, anche eventualmente senza commento. Lo scarso livello di sicurezza non può riferirsi ad altro che alla ipotesi di impiego dei missili terra-aria spalleggiabili (Stinger, SA-7, RPG-7).

Questo tipo di missile è quanto di più pericoloso ci possa essere sul mercato delle armi contro voli a bassa quota. In particolare, se usato a scopi terroristici, la minaccia può riguardare anche voli di linea in atterraggio o al decollo. Il missile è del tipo fire and forget e si autoguida verso le fonti di calore.

Come contromisura nei confronti degli Stinger - e altri - sono stati studiati dei sistemi automatici di protezione per l'inganno. L'inganno consiste nel lancio di fonti di calore che disorientano il sistema di autoguida del missile. Un'altra misura è quella di ridurre l'emissione di calore da parte dei motori.

Le stime dicono che l'esercito iracheno disponesse di 3.000 Stinger. Di recente ne sono stati trovati e sequestrati 500. Ce ne sarebbero perciò 2.500 ancora in circolazione. La minaccia è quindi reale. Del resto, oltre una dozzina di elicotteri americani (che dispongono di sistemi automatici d'inganno) è già stata abbattuta.

Anche gli elicotteri HH-3F dell'Aeronautica e gli SH-3D della Marina, rischierati dall'inizio delle operazioni, dispongono di sistemi automatici. Questi si avvalgono di un radar per l'individuazione della minaccia. Gli elicotteri dell'Esercito non ne disponevano, ma sono stati dotati di sistemi manuali (i tempi di reazione sono molto più lunghi) prima di essere inviati in Iraq.

Se da una parte l'essere dotati di sistemi d'inganno antimissile consente di compiere missioni con un livello di sicurezza più elevato, dall'altra il fatto che quelli in dotazione degli elicotteri dell'Esercito italiano siano manuali costringe l'equipaggio a una continua e stressante attenzione per cercare di individuare la minaccia a vista. Ne conseguono: rischio di errore o di sottostima della minaccia e tempi di reazione lunghi. Quindi, maggiore vulnerabilità.

Se a questo si aggiunge il fatto che delle centottanta ore di volo all'anno previste dagli standard NATO i piloti riescono a farne in media trenta, si comprende come possa essere credibile la buona fede di chi stende una relazione tecnica sulla sicurezza nell'impiego di aeromobili in situazione di conflitto a bassa intensità come quello dell'Iraq. E' credibile cioè che un pilota possa non ritenersi addestrato a sufficienza per svolgere una determinata missione e che non si ritenga preparato per impiegare tutti i mezzi tecnici di cui dispone.

Se il punto di partenza della questione che ha portato alla denuncia dei piloti è effettivamente ed esclusivamente la presentazione di un rapporto tecnico, allora si può ritenere che la questione sia stata presa di petto e radicalizzata da uno dei livelli della catena di comando. Se invece si tratta di insubordinazione e - come dice il generale Chiavarelli - sono ottimi piloti ma cattivi soldati (così è riportata la dichiarazione dai quotidiani) allora è una questione di attitudine militare.

Ma se un pilota militare ha scarsa attitudine militare, non diventa nemmeno pilota. Anzi, non diventa nemmeno militare. La valutazione più importante presso le scuole e le accademie, infatti, è proprio il voto di attitudine militare. Se questo è insufficiente non si diventa né ufficiale né sottufficiale.

In ogni caso, si è portati a pensare che la questione avrebbe potuto essere risolta "in famiglia", così come si fa di solito con i panni, senza esibire in piazza quelle che - comunque si giri il problema - si rivelano deficienze della organizzazione (selezione, addestramento, impiego del personale, dotazione di mezzi tecnici…). Il caso dei piloti ammutinati si potrebbe rivelare il primo caso di suicidio mediatico istituzionale: il suicidio dell'Aves.

 
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