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L'utopia della Difesa Europea PDF Stampa E-mail
Da molti anni, con cadenza regolare, il tema della Difesa europea, dell'esercito della Ue, delle forze armate comunitarie torna alla ribalta con tutto il suo inesauribile carico di retorica e pomposità. A dare nuovo lustro a un tema caratterizzato finora da tantissimo fumo e pochissimo arrosto ha provveduto il 7 febbraio il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, che alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera ha definito la "creazione di un esercito europeo sotto controllo parlamentare" un obiettivo da perseguire, ovviamente "a lungo termine".

Sono ormai troppi anni che sulla politica di difesa e sicurezza europea si sprecano parole che si rivelano poi prive di concretezza.

Sull'onda delle operazioni della Nato in Kosovo nel 1999 Bruxelles si diede l'obiettivo di costituire un corpo di reazione rapida composto da circa 60.000 militari da schierare rapidamente nelle aree di crisi. L'obiettivo si rivelò quasi subito impraticabile e ogni Paese si limitò ad assegnare sulla carta una o due brigate terrestri, alcune navi e un pugno di aerei a questo corpo d'armata che nessuno mai ha mobilitato. Pochi anni dopo la Ue ripiegò infatti su una più limitata forza di reazione rapida da 5/10.000 unità da impiegare come prima risposta a crisi di sicurezza e umanitarie.

In realtà nonostante gli oltre 2 milioni di militari professionisti presenti nel Vecchio Continente (abituati già in ambito Nato a operare in forze multinazionali), l'integrazione dei diversi strumenti militari non è possibile semplicemente perché esistono stati nazionali con bilanci della Difesa, priorità e interessi diversi (spesso in contrasto con altri partners europei) e soprattutto perché i 27 Paesi non troveranno mai l'unanimità per mobilitare in tempi brevi (e quindi con efficacia) una forza militare comune per missioni di combattimento se non (forse) in caso di improbabile attacco a un membro della Ue.

E' sufficiente osservare come in Afghanistan, in una missione guidata dalla "collaudata" Nato, gli europei mettano in campo forze ben inferiori a quelle statunitensi e del tutto marginali se si considera a parte l'impegno britannico e il fatto che molti contingenti del Vecchio Continente operano con forti limitazioni (i noti caveat). Di fatto la Ue è in grado di mobilitare forze limitate solo per missioni umanitarie (come quella che si svilupperà ad Haiti), prive di rischi (come quella in Bosnia) o al massimo di peacekeeping ma che escludono il combattimento (come quella in Congo).

In realtà molto si è fatto solo sul piano dell'integrazione industriale con grandi aziende multinazionali europee del settore militare (EADS, Finmeccanica, Bae Systems) che si consorziano per sviluppare programmi comuni per realizzare mezzi per le forze armate di molti Paesi comunitari e che hanno creato la seconda società missilistica del mondo, MBDA. Le stesse aziende europee sono però acerrimi rivali sui mercati internazionali e si combattono senza esclusone di colpi per acquisire contratti in tutto il mondo.

Sul piano militare la UE ripresenta in pratica gli stessi problemi evidenti nella sua politica estera incentrati soprattutto sull'incapacità di assumere e mantenere posizioni decise e di esprimere una deterrenza militare credibile. Basti pensare che lo stesso Westerwelle ha definito pochi giorni fa quello afghano un "conflitto armato", termine utilizzato per la prima volta dal governo tedesco. "Che ci piaccia o no - ha aggiunto il ministro al Bundestag - questa è la situazione". Se ci sono voluti otto anni perché il principale Paese europeo chiamasse guerra la guerra cosa ci si può aspettare sul piano militare dalla UE?

di Gianandrea Gaiani da Panorama.it

Bolognese, 47 anni, ha seguito tutte le missioni italiane degli ultimi 20 anni. Dirige Analisi Difesa ed è opinionista del Giornale Radio RAI. Ha scritto "Iraq Afghanistan: guerre di pace italiane".

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